Fantasmi [3] di Uduvicio Atanagi

FU QUANDO SI AMMALÒ CHE MIA MADRE INIZIÒ A PARLARE DELLO SPAZIO

Fu quando si ammalò  che mia madre iniziò a parlare dello spazio.
Lo spazio diceva, milioni di pianeti, diceva, anzi no miliardi, diceva.
Io la guardavo e mi perdevo nella sua bellezza, mi perdevo nel modo in cui parlava e mentre parlava vedevo lo spazio, vedevo il buio infinito e luminoso e le esplosioni immense e accecanti che nessuno poteva vedere né sentire, vedevo le navi spaziali, i cilindri volanti entrare e uscire dai vulcani di pianeti ghiacciati, dai deserti lavici di pianeti infuocati, sentivo silenzi immensi e poi melodie impossibili e poi le stelle e la scia delle comete che sono le lumache dello spazio, diceva.
Dobbiamo prepararci, diceva, è lì che devo andare, diceva.
Sedevamo per ore sul divano davanti alla televisione, mi stava così vicina che sentivo il suo calore e il suo respiro e delle volte le guardavo la pancia e la vedevo salire e scendere, salire e scendere lenta, lentissima insieme al suo respiro che si faceva profondo.
Mi ricordo il suo odore, mi ricordo il suo profilo, i suoi occhi dove lo schermo si rifletteva come un piccolo rettangolo luminoso dentro a un lago nero, il suo naso bagnato dalla luce della televisione che si rifletteva sul plexiglas trasparente.
Avevamo un casco spaziale, è un casco spaziale, diceva, e due grosse tute di plastica che servivano per non bruciare quando attraversavi l’atmosfera.
Non devi avere paura, diceva.
Non devi mai avere paura.
Ma tornerai? Le chiedevo? Ma mi lasci qui? Lei mi stringeva forte le mani, le sue mani erano erano ruvide sopra e morbide sotto, le sue mani erano morbide e fredde ma dopo poco diventavano calde.
Non avere paura, diceva. Quando diceva così gli occhi le diventavano un po’ più luminosi e un po’ più bagnati a me mi sembrava di vederci dentro un mare alieno, una galassia lontana, uno spazio infinito.
Diventò sempre più magra, la notte non riusciva più a dormire, diceva che era solo così che poteva andare nello spazio, il suo corpo si stava abituando.
Quando morì la guardai distesa sul letto, sembrava viva, io mi chiedevo come facesse ad andare nello spazio, mi chiedevo se forse era una cosa che si faceva con la mente o con l’anima ma allora a cosa servivano le tute? Quando morì nel cuore mi venne un buco che non si è ancora riempito, che non si riempirà mai.
Adesso delle volte guardo il cielo e penso che forse lei è lì da qualche parte, delle volte esco fuori la notte quando è freddissimo o quando si sente l’odore dell’erba bagnata che è l’odore di quando ti accorgi che l’inverno è finito e sta arrivando l’estate. Allora cammino da solo con il mio casco spaziale e la mia tuta di plastica, allora delle volte inizio a correre fortissimo, allora delle volte urlo fortissimo, così forte da farmi male alla gola, così forte che forse la mia voce arriva fino ai pianeti lontani, fino alle navi spaziali, fino ai vulcani che bruciano sui pianeti ghiacciati che gelano, che forse lei mi sente, che forse la mia voce viene inghiottita dal vuoto, dal buio, dai buchi neri, dai banchi di asteroidi, dagli oceani siderali, dal silenzio, dal nulla.
Poi alzo la testa, apro gli occhi, respiro forte, il mio fiato condensa caldo contro la visiera del casco, sento i lati della bocca bagnati, sento un sapore di ferro e di sale, il cuore mi batte fortissimo, a ogni battito sento che il buco che mi è venuto mi fa sempre più male.
Allora mi tolgo il casco, allora l’aria fredda mi sfiora la pelle, allora rimango immobile ad ascoltare il rumore dell’erba, a guardare il cielo nero, nerissimo che trabocca di stelle.

© Uduvicio Atanagi, 2016

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