Due passi nel nero. Intervista itinerante a Mariano Sabatini

Immaginate un buio totale. Nero più nero del nero. Ci siete solo voi, un solido piano di appoggio su cui camminare, e una luce che distingue e risalta solo la vostra figura. L’eco dei vostri passi è l’unico rumore. Siete soli. Fino a quando non lo incontrate. Forse è stato sempre lì con voi e non ve ne siete accorti. Fatto sta che era proprio lui che cercavate. Iniziate a camminare insieme. Perché volete vedere meglio, in questo nero che sono le storie, le sue storie, quelle dello scrittore Mariano Sabatini.

Voi, che i suoi L’inganno dell’ippocastano e Primo venne Caino li avete letti, volete sapere di più. Di lui, di Malinverno, l’affascinante giornalista protagonista di entrambi, di Roma, che fa da sfondo alle vicende. Inizia così, con due passi nel nero.

Mariano, fammi vedere un posto dove i diavoli si dicono buonanotte.

L’espressione “dove i diavoli si dicono buonanotte” l’ho mutuata da Elda Lanza che la ripeteva spesso. Diciamo che è, nella mia trasposizione immaginifica, un territorio estremo, male illuminato o senza luce, attraversato da esistenze al limite… Ovviamente, come teorizza Olivia Laing in Città sola, un simile contesto può ripetersi anche nel rutilante centro di Manhattan. Buio e luce, bene e male, gioia e sofferenza, solitudine e socialità sono dentro ciascuno di noi e questo il mio protagonista, Leo Malinverno – giornalista per vocazione, seduttore naturale e investigatore suo malgrado – lo sa bene. E con questa consapevolezza si muove nel mondo, fatto di invidie, sopraffazioni, violenze, uccisioni, sangue… L’investigazione lo porta a contatto con l’animo umano ed è soprattutto lì che più spesso i diavoli si incontrano e si salutano. Nell’interiorità di ciascuno ha spazio, sfogo, espressione la malvagità che alcuni ravvisano nel diabolico.

Leo Malinverno, però, non si muove a Manhattan. Lui i diavoli li incontra a Roma. Ne “L’inganno dell’ippocastano”, a un certo punto, sappiamo che ama molto Piazza San Giovanni Bosco. Ecco che si materializzano davanti ai nostri occhi gli edifici alveari, scatole che contengono storie di vita, relazioni, aneddoti. Cosa significa per uno scrittore confrontarsi con Roma?

Significa avere dai lettori un notevole credito di attenzione, simpatia in senso etimologico, coinvolgimento emotivo… come canta Luca Barbarossa, Roma è di tutti perché prima era di Roma un po’ tutto il mondo. E Roma non è così diversa da New York o altre metropoli. Da romano ci sono volte in cui mi ritrovo in punti della città – dove i diavoli si dicono buonanotte – in cui mi chiedo se sia ancora Roma. Ed è incredibilmente ancora Roma, che contiene svariate città di provincia medio piccole. Ogni quartiere è una città spesso quasi intangibile alle altre, con stili di vita e residenti molto diversi. Come dico sempre, io non ho la pretesa di raccontare Roma in assoluto, racconto la mia Roma. Poi stare nella Capitale, oltre a respirare le bellezze storico-artistiche, significa anche incazzarsi per il degrado, il sudiciume, il caos, lo sperdimento… tutto questo vive anche Malinverno, che abita in un villino nei pressi di villa Ada, ma apprezza l’atmosfera da grosso cortile di piazza Don Bosco, in periferia. Questa città ti addestra alla pazienza senza alternative, se non vuoi cedere allo stress. Roma è una forma di meditazione metropolitana.

Una città che è un mosaico di colori e di sfumature, proprio come i tuoi romanzi, dove ai toni del giallo, oserei dire “strutturali”, si mescolano, a volte si sovrappongono, linee nere, solchi slabbrati che sono storie di vita dolorose e sincere. Leo Malinverno è in bilico tra consapevolezza e ricordo, tra stasi e nevrosi. Riusciamo subito a immaginarlo come una nuova icona dell’investigativo italiano, definito tanto nei metodi quanto nelle relazioni. Il nero in cui si cala ha una faccia riconoscibile, sia quella di chi ruba gli occhi a un probabile candidato sindaco, sia quella di chi alle sue vittime asporta tatuaggi, eppure è il contorno a fare più paura: la possibilità del male che è prossima, diluita nel reale. Come ti approcci alla realtà e alle sue infinite sfaccettature, per tracciare questi solchi narrativi?

Posso dire, rubando un modo di dire di un collega e con buona dose di autoironia, che Malinverno c’est moi, nel senso che molto del suo sentire è il mio. Siamo simili dal punto di vista culturale e di sensibilità, poi lui fa scelte che non condivido. Per tornare alla fine della tua domanda, non mi approccio alle notizie, mi faccio piuttosto permeare da ciò che accade. Dai fatti mi faggio raggiungere, più che inseguirli. Poi faccio ricerche sui risvolti scientifici o antropologici, come nel caso dei tatuaggi o le dinamiche di azione dei serial killer. Mi fa molto piacere che tu abbia notato l’aumentato tasso di orrore che è diluito nella realtà. Personalmente, infatti, le parole che più mi danno orrore sono quelle dei vicini degli assassini. Quando dicono “era un uomo gentile, sempre buongiorno e buonasera”. Forse il concetto di pretesa normalità va rivisto. Senza il forse.

Disegnamo un triangolo equilatero in cui i vertici siano “funzione sociale”, “immersione emotiva” e, l’ultimo, “espressione artistica”. Dove si colloca il Sabatini scrittore? C’è la possibilità che questi vertici coincidano e che la geometria diventi un segmento?

Matematica e geometria non sono mai state le mie tazze di tè, come direbbe un inglese, diciamo che per ora riesco a visualizzarmi su un piano cartesiano… è corretto? Mi colloco tra “funzione sociale” e “immersione emotiva”, riconoscendo di barcamenarmi abbastanza bene con entrambe. Ho un po’ più di remore, nonostante i premi vinti, ad attribuirmi un valore artistico. Preferisco che siano gli altri, i critici e soprattutto i lettori, a riconoscere nella mia narrativa un tasso di espressività artistica. Un mio amico, che è anche uno scrittore prolifico, mi ha detto en passant di aver riscontrato in Primo venne Caino dei passaggi letterari, io ho incassato con un certo imbarazzo e tanta sorpresa. Diciamo che l’arte è una medaglia che solo il tempo può assegnare, io mi accontento di raccontare storie nel modo migliore, con una lingua meno possibile sciatta. Ma è forse proprio questa tensione a fare la differenza, ne ho il sospetto ma non ne sono certo.

Oltre alla medaglia artistica dei tuoi romanzi, il tempo ci regalerà altri tuoi progetti. Vuoi parlarcene?

Il tempo, sì, certo. Sto di nuovo con Malinverno, stiamo conducendo una inchiesta complessa, aggrovigliata, con qualche strascico dalla storia precedente, in cui ha dovuto fronteggiare un serial killer. Ogni mattina mi alzo e lui mi aspetta al pc, più mattiniero di me, ha già corso un’ora e fatto colazione, io mi presento assonnato e aggrappato alla tazzina di caffè. Ma prima del nuovo romanzo usciranno alcuni racconti in antologie di autori vari, la prima delle quali è Delitti di lago per Morellini editore. Poi una che sarà curata dal mio socio e sodale Divier Nelli, che io chiamo il guru dell’editoria e con il quale dirigo la Polillo. Arriverà anche altro di cui, se vorrai, potremo parlare in futuro.

Adesso ci salutiamo. Ma prima di andartene, consigliaci un libro, un film e una canzone.

Difficile per chi si nutra di film e libri sceglierne uno e uno soltanto. Una bella sfida. Direi allora La finestra sul cortile” di Alfred Hitchcock, un mix di glamour, tensione, bei dialoghi… ma ne potrei citare svariati altri, e anche delle serie Tv. Per i libri, stesso discorso, ma scelgo tra i tanti Dio di illusioni di Donna Tart, una bella storia nera, protagonisti degli studenti universitari. Una canzone? La musica e i brani di Olafur Arnalds che ultimamente cerco quando scrivo.

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