DoctorWriter [51] di MariaGiovanna Luini

A DUE PASSI DA ME

Esce troppo presto, raramente riesco a intercettarla: mi tocca aspettare la sera quando rientra, scende dall’autobus o – se è molto tardi – da un taxi, oltrepassa la portineria salutando in quel modo particolare (tira giù la testa e piega il collo come se si inchinasse e mormora più volte il saluto, non ho mai trovato giustificazione per un’apparenza servile che non le appartiene e anzi mi irrita se la rivolge a me) e cammina svelta fino al civico 44. Di solito rovista nella borsa per cercare le chiavi poco prima di sfiorare il metallo fresco dell’ingresso con la mano sottile, le dita lunghe e magre, pallide, le unghie perfette di manicure trasparente. Indossa jeans e camicia chiara, di preferenza: sopra la camicia infila golfini di cachemire a tinte pastello e le scarpe hanno sempre tacco basso. Quasi mai preme i tasti del citofono: quando lo fa non riesco a intuire se la voce che risponde sia femminile o maschile. Ammesso che quella voce ci sia: dall’anno scorso non serve ululare “chi è?” perché abbiamo videocitofoni nuovi ed è sufficiente alzare la cornetta per vedere chi stia chiedendo di entrare.
La osservo dal balcone a luce spenta per non farmi notare: nelle ore dell’inverno che ancora non è passato era un’ombra snella nei vialetti, dritta ed elegante, che dalla portineria si infilava nell’androne del palazzo di fronte al mio. Un lampo scuro che si distingueva dagli alberi rinsecchiti e spogli, dall’erba addormentata e dalle automobili parcheggiate lungo i marciapiedi grazie al cambiamento fulmineo di energia, alla vibrazione brevissima ma evidente dello spostamento d’aria al suo passaggio. Adesso che le giornate diventano più lunghe riesco a distinguere i colori del cappotto e il biondo chiarissimo dei capelli lunghi, tanti, lisci. E’ sempre pettinata: le prime ciocche dietro le orecchie in una piega studiata, dà l’idea di una che non bada ma sono certa che calcoli perfino l’inclinazione delle labbra quando sorride. Ha una borsa sulla spalla e spesso tiene in mano un libro, come se avesse smesso di leggere all’arrivo qui al quartiere e le mancasse la voglia di metterlo via.
Qualche sera fa ero convinta di non riuscire a vederla: avevo una cena da amici e pioveva a scrosci violenti, così ho chiamato un taxi specificando che l’avrei atteso dentro e il tassista avrebbe dovuto oltrepassare la portineria (bisogna dirglielo, altrimenti si fermano fuori adducendo il pretesto di improbabili disposizioni aziendali). Ombrello in una mano e borsa nell’altra, fremevo controllando le luci delle auto che, lente, si fermavano alla sbarra per poi ripartire e infilare la direzione dei garage o delle case: pregavo perché il taxi non si perdesse, non incontrasse traffico, non indugiasse chiedendo ai portinai come raggiungermi. La sua voce è stata una sorpresa.
– Ciao, Lucrezia!
– Oh, Guenda. Non ti avevo visto.
Testa giù, su, giù, su tre o quattro volte. Ha teso la mano sistemando il libro sotto l’ascella: quando le ho restituito la stretta ho avuto la sensazione che fosse senza sangue.
– Esci?
– Sì, a cena da amici.
– Oh, bello. Fai bene.
Ho strizzato le guance: ormai sono bravissima a fingere di apprezzare la sollecitudine altrui. Da quando sono vedova sembra che il mio divertimento importi a tutti: se accetto un invito frivolo il commento più frequente è che sono brava o faccio bene. Come se violentarmi per fare credere al mondo che stia partecipando alle sue recite fosse un merito e non una banalissima strategia per evitare domande.
– E tu?
– Oh, ritorno sempre a quest’ora più o meno: lavoro dall’altra parte della città e gli orari sono impossibili.
– Avete tanto da fare?
– In questo periodo sì. Ci sono state le primarie e si parla di un rimpasto di governo, ma al di là di questo c’è sempre qualcosa. E’ come se fossero sempre sul punto di arrivare altrove, di inseguire una nuova carica. Dove e come, non si sa: tutte parole, parole. Si promettono cose, si dicono che dovranno incontrarsi per progetti nuovi, vanno a cena e ritornano con grandi idee. Poi. Boh.
– Avranno i loro gruppi, le simpatie.
– Cambiano sempre, salvo qualche zoccolo duro. La fedeltà è opzionale e scomoda.
Già, e tu hai imparato bene. Non ha letto il mio pensiero e ha riso: la pioggia le è caduta su una guancia, come se avesse un grumo di lacrime poco sopra le labbra.
– In realtà ciò che si dice dei politici è proprio vero. Si sentono dei, tutti.
Anche i medici universitari: lo penso ma non lo dico. Non so quanto sappia del mondo dell’ospedale, anche se immagino che Piercarlo si sia sfogato con lei nei loro momenti da soli. Per un istante l’ho immaginato nudo, seduto su un pavimento che non conosco, con un bicchiere di vino rosso e lei appoggiata alle gambe piegate avanti.
Ho detto altre parole e anche lei, poi ho rinnovato l’invito a prendere un aperitivo su da me, uno di questi giorni: di nuovo ha accettato. Non è mai accaduto, ma il mio invito non è falso e neanche la sua voglia di venire a trovarmi: so che succederà.  E’ curiosa di scrutare la mia casa, i miei occhi, i ricordi e il mio dolore, e crede di essersela cavata a buon mercato: voglio che lo pensi, almeno per il momento, e arrivi da me convinta di fare un gesto generoso e buono.
– Porta anche la tua bambina. Come si chiama?
– Fulvia Maria.
– Che nome meraviglioso, adoro i nomi composti. Fulvia Maria Gratz. Ah, no, scusa, ha parlato il mio femminismo: come è il cognome?
– Gratz, si chiama Gratz. Come me. Le ho dato il mio cognome.
– Mi sono limitata ad annuire e sono salita sul taxi salutando con una mano.
Alla cena non ho ascoltato i discorsi ma sono stata bravissima a reggere il gioco: per fortuna i mesi hanno stemperato il pathos che spingeva ogni essere umano nel giro di dieci metri a chiedermi come mi sentissi e come fosse accaduto che. In realtà pensavo a loro, a Guenda e a Piercarlo. Guenda Gratz, quarantun anni, famosa PR che lavora in esclusiva per Giuliano Volenti (cinquantanovenne con numerose cariche politiche al suo attivo), proprio nello studio di Volenti ha conosciuto Piercarlo Sintorini, sessantadue anni portati benissimo, professore di anatomia patologica all’Università degli Studi di Milano e direttore dell’omonimo reparto in uno dei più rinomati ospedali della città. Il fu professore Piercarlo Sintorini, padre di sua figlia che forse ancora non ha l’idea di essere orfana.
La aspetto ogni sera a luce spenta: non mangio finché sono certa che sia in casa, dalla sua bambina. La osservo e registro ogni passo, ogni tic, ogni vezzo, ogni respiro: la seguo e ho pazienza. Annoto, registro, annuso. Perché, anche se dovesse essere l’ultima cosa che faccio in questa vita, un giorno la ucciderò. Perché Piercarlo Sintorini era mio marito.

© MariaGiovanna Luini, 2017

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