DoctorWriter [16] di MariaGiovanna Luini

foto di MariaGiovanna Luini
foto di MariaGiovanna Luini

IL ROMANZO DEL MAGISTRATO

Questa pubblicazione a puntate scioglie un destino. E’ il primo romanzo che ho scritto, il romanzo che chi mi conosce aspetta che sia pubblicato perché – pare – la trama piace. Il romanzo finora bloccato: qualcosa si mette sempre in mezzo. E’ ora che queste parole escano e si lascino leggere.
Quando esiste un blocco, Luce ed Energia lo forzano e dissolvono le ostruzioni. Uso quindi Luce ed Energia e dono “il romanzo del magistrato” a puntate ai miei lettori in Sdiario.
E il blocco si scioglie, voilà.

Capitolo 6

La cattedrale era impressionante: fiori e canti nella penombra che odorava di incenso, silenzio pesante di sospiri e voci che non potevano fermarsi e bisbigliavano commenti, gente affollata sulle sedie e in piedi a riempire ogni angolo, in bilico sopra il fuoco delle candele. Sul sagrato i giornalisti e le inquadrature spietate delle televisioni testimoniavano il suo dolore muto a una folla di volti sconosciuti. Gianna si chiese chi fosse lì perché colpito da dolore vero, per una disperazione simile alla sua: lasciò vagare lo sguardo prima di entrare nella navata e camminò lenta dietro al feretro. Dovevano averle dato qualcosa per tranquillizzarla, si sentiva estranea: distaccata, calma, lucida, perfino morbida nei pensieri.
L’odore dell’incenso e dei fiori le sarebbe rimasto attaccato per settimane, la dolcezza leziosa e macabra intontiva. Decomporsi forse era questo: fiori, incenso, calore e tempo. E la carne in disfacimento, vuota.
Aveva atteso le lacrime immersa nell’atmosfera irreale dei giorni m non aveva pianto. Le avevano permesso di rivedere Riccardo prima dell’autopsia, aveva potuto baciarlo: Giuliano aveva ottenuto che non ci fosse un vetro a separarla da lui, e neanche un sacco di plastica; l’aveva accompagnata e tenuta stretta per tutto il tempo. Molte persone erano arrivate in visita a casa: ognuno diceva ciò che credeva giusto e non attendeva risposte. Quasi tutti uscivano scuotendo la testa, le donne sussurravano “Poverina”.
Che fosse Valeria a occuparsi degli ospiti era ovvio, senza di lei non avrebbe saputo come affrontare la confusione. L’aveva aiutata, era stata gentile: aveva scelto il vestito per Riccardo perché “era il suo preferito” mentre lei assisteva in silenzio. A un certo punto, non ricordava quando, l’aveva vista indossare l’orologio di Riccardo: non si era opposta, non le importava di ciò che era rimasto. Erano oggetti, lui non era più là.
“Signora, deve pensare che è morto per un ideale”: questa era stata la frase che più l’aveva colpita. Morto per un ideale? Suo marito era morto perché aveva perso la battaglia contro la mafia, l’ideale che aveva perseguito non era stato abbastanza forte da convincere chi poteva a proteggerlo. Ma anche questo pensiero era andato via rapidamente, cancellato dalla moviola della mente e dalle immagini, sempre le stesse, di Riccardo che cadeva a terra straziato. Continuava a morire davanti ai suoi occhi, a urlare di andarsene prima di fissarla e crollare a terra. Morto, con la carotide squarciata e un occhio che non c’era più.
C’era un prima, e c’era un dopo. Nel suo prima, a lungo aveva temuto di ricevere una telefonata oppure la visita dei carabinieri, o l’arrivo improvviso di Giuliano a comunicarle una notizia tremenda. Aveva delirato su una possibile malattia quando l’odore della sua pelle, settimane prima, si era trasformato: con questa stupida fissazione per l’aspetto e l’odore delle persone aveva temuto che il velo impalpabile di sudore gelido, che ricordava l’aria condizionata dell’obitorio, indicasse che suo marito stava male. Ma no, stava benissimo. L’avevano ammazzato in giardino, altro che malattia. Mai aveva immaginato che accadesse così.
Giuliano le sfiorò la schiena. Si chinò su di lei.
– Come stai?
Annuì, si abbandonò indietro sul palmo della sua mano: era caldo, la aiutava a mandare via il gelo. I canti erano nenie, le parve di riconoscere le parole del sacerdote durante l’omelia ma non ne fu sicura. Si alzava al momento giusto e, sempre al momento giusto, ritornava a sedersi: il fruscio dei movimenti di Giuliano la guidava. Se solo Valeria avesse smesso di singhiozzare!
La luce delle candele aveva un alone alto, giallastro: si spostò un poco per osservare un gruppo di persone che apriva la bocca per rispondere alle preghiere, nella penombra sembrava che da loro uscissero folate di vento colorato oppure smorto, ondeggiavano cantando a mani giunte e i corpi erano frastagliati da contorni grandi, disuguali, quasi le emozioni fossero parte dei respiri che buttavano fuori e salivano in alto.
Strinse le palpebre, forse avevano esagerato con il calmante perché aveva le allucinazioni: ciascuna di quelle persone aveva un contorno, in alcune notava impressioni di colore vivide oppure remote. Strano, avrebbe potuto indicare con chiarezza chi di loro soffriva sul serio e chi no. Lanciò uno sguardo a Giuliano, lui non aveva gli sbuffi di colore della gente che stava accanto alle candele. Era opaco, non rifletteva luce. Strinse i denti come se stesse masticando cartone, fu scossa da brividi.
– Ehi, tutto a posto?
No, niente era a posto. Stava diventando pazza. Chiuse e aprì le palpebre più volte finché le persone e gli oggetti ritornarono concreti, con le dimensioni e i limiti che aveva sempre conosciuto. Giuliano accarezzò di nuovo la sua schiena, lo sentì attraverso il tessuto del vestito nero che lui stesso le aveva regalato.
– Metti questo, l’ho comprato per te. Gli altri sono troppo larghi, sei dimagrita.
L’aveva indossato e prima che uscissero di casa Valeria aveva tagliato il cartellino bianco che ancora penzolava da una manica.
Riconosceva tanti volti. C’erano i colleghi dell’ospedale, gli amici del golf (era Riccardo l’atleta, a lei i golfisti erano abbastanza antipatici), notò persone che suo marito le aveva detto di evitare e i compagni di scuola di Chiara, il ragazzo che a lei piaceva ma suo padre non voleva che frequentasse perché era troppo giovane per uscire con qualcuno. Come si chiamava? Marco, forse. E Gemma, l’amica psicoterapeuta che da giorni era la sua ombra silenziosa, e uomini e donne che si avvicinavano, le stringevano la mano oppure la abbracciavano e andavano via.
La mano di Giuliano, gentile e decisa, le diede una spinta avanti. Capì che la funzione era finita, era tempo di salutare Riccardo. Alcuni uomini sollevarono il feretro, fece un passo verso di loro per toccarlo ma la mano di Giuliano si appoggiò alla sua spalla e strinse: non doveva muoversi. Allora abbandonò i pensieri e dedicò un sorriso piccolo a Riccardo che se ne andava per sempre.

© MariaGiovanna Luini, 2015

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