DoctorWriter [13] di MariaGiovanna Luini

foto di MariaGiovanna Luini
foto di MariaGiovanna Luini

IL ROMANZO DEL MAGISTRATO

Questa pubblicazione a puntate scioglie un destino. E’ il primo romanzo che ho scritto, il romanzo che chi mi conosce aspetta che sia pubblicato perché – pare – la trama piace. Il romanzo finora bloccato: qualcosa si mette sempre in mezzo. E’ ora che queste parole escano e si lascino leggere.
Quando esiste un blocco, Luce ed Energia lo forzano e dissolvono le ostruzioni. Uso quindi Luce ed Energia e dono “il romanzo del magistrato” a puntate ai miei lettori in Sdiario.
E il blocco si scioglie, voilà.

Capitolo 3

– Fisicamente sta abbastanza bene. E’ sotto shock, ovvio. Non ci segue in ospedale, ha firmato e non posso fare altro: è un medico, sa quello che fa. D’altra parte ha traumi di poco conto: braccia, torace. Forse una frattura costale, non riesco a capire bene e senza una proiezione radiografica resterà un mistero. Non so quanto dolore abbia, per ora non si può stabilire. Nessuna lesione grave, darei la priorità al trauma psichico.
Con chi stava parlando il medico giovane e gentile che per mezz’ora buona le aveva sputato addosso domande destinate a fluttuare nel vuoto? I rumori rimbalzavano, scrutava il giardino dall’angolo di una finestra: oltre alle auto dei Carabinieri e ai furgoni dei RIS e dell’obitorio erano arrivate due ambulanze. A chi servivano? Tutto era fermo al momento della morte di Riccardo, lo rivedeva cadere e lui la fissava prima che un occhio esplodesse. Era uscito alla solita ora, l’aveva abbracciata a lungo e baciata con la stessa passione della notte appena trascorsa, poi… Scacciò il pensiero, non era il momento, ma la testa non volle fermarsi: con Fabrizio e Luca si era diretto alla macchina, portiera aperta e motore acceso. Sul sedile posteriore i quotidiani pronti.
I tre erano comparsi in un attimo, correvano da direzioni diverse. Avevano qualcosa in mano. Sembrava non facessero rumore.
– Gianna corri, vai via, vai via!
Fabrizio e Luca avevano cercato di puntare le armi in tutte le direzioni. Aveva avuto l’impressione che Fabrizio volesse sparare a lei.
Aveva urlato, la voce non era uscita. Voleva lanciarsi verso Riccardo ma le gambe erano piombo: qualcosa la tratteneva sulla soglia. Qualcuno aveva parlato? Poi c’erano stati gli spari: secchi, continui, definitivi, e Riccardo si agitava, indietreggiava, cadeva vicino all’automobile. I suoi occhi terrorizzati la fissavano. Era crollato a pochi metri da lei e per qualche secondo (o minuto?) il corpo aveva continuato un balletto senza senso, con un lamento non umano e il sangue a fiotti dal collo martoriato. Un occhio era stato colpito e non c’era più, era caduto e aveva battuto la testa contro un sasso: il colpo le aveva fatto pensare, sciocca, a una frattura della base del cranio; illogica, aveva temuto che il sasso lo uccidesse. E aveva notato la borsa portadocumenti vicina alla macchina: non si era aperta. Chissà perché il dettaglio l’aveva colpita. L’odore acre del fumo intontiva.
Le morse che la trattenevano si erano allentate, gli uomini erano spariti: si era avvicinata a lui con la sensazione di essere sorda. Lo vedeva riverso, devastato dai colpi in un silenzio irreale.
Qualcuno le parlava. Un giovane carabiniere con gli occhi azzurri cercava di farsi ascoltare.
– Quanti erano, signora? Si ricorda quante persone sono entrate in giardino?
Tre, erano tre. Ma che importanza aveva? L’avevano ucciso. Non si era mossa, non aveva gridato per chiamare aiuto. Aveva dolore alle braccia e al torace. Chinò la testa.
– Non li ha visti? Portavano un passamontagna? Una maschera? Signora, mi sente?
Certo che sentiva. Ma aveva altro in mente.
– Da dove sono usciti? Dove erano nascosti?
In giardino, non sapeva dove. Li rivide correre. Da dove erano arrivati?
– Dovrebbe andare all’ospedale. Mi capisce? All’ospedale!
Ripeteva le cose due volte e alzava la voce. Annnuì per fermarlo: non era né sorda né stupida, aveva solo voglia di essere lasciata in pace.
– E’ piena di sangue, dottore. Sicuro che non sia ferita?
Per fortuna il medico riuscì a deviare la conversazione ripetendo per la decima o quindicesima volta la diagnosi: il corpo stava bene, tutto il sangue che aveva addosso era di suo marito. Che avesse o meno qualche costola rotta non era troppo importante: per le costole rotte non c’è che da aspettare e ridere il meno possibile. Certo nei giorni e mesi successivi non avrebbe avuto voglia di ridere.
Gli occhi tuffati nel giardino accarezzarono i lenzuoli macchiati, li contò e strinse le palpebre: si accorse di avere trascurato qualcosa. Tre, erano tre: due lenzuoli sul prato, uno sul vialetto. Fece fatica, la mente intorpidita. Poi riuscì a ricordare: non avevano sparato solo a Riccardo. Anche Fabrizio e Luca erano stati colpiti, erano morti anche loro. Cercò i loro volti nella memoria e li trovò fusi al sorriso di Riccardo: quanto tempo ci avrebbe messo per confonderne i lineamenti e rimescolare voce a voce?
Quando comunicava a un paziente una notizia spiacevole rallentava le parole e contava fino a dieci: sapeva di interpretare un ruolo che avrebbe cambiato loro la vita, era consapevole che la notizia snocciolata dalle sue labbra avrebbe costituito un prima e un dopo. Prima della tragedia, dopo la tragedia: stava accadendo anche a lei. Prima di quella mattina e tutto l’abisso successivo.
– Gianna, per favore, almeno vieni via dalla finestra. Sei da film dell’orrore. Sei sporca di sangue e con il teleobiettivo riescono a prenderti di sicuro.
La voce di Valeria. Era in casa e, come sempre, aveva il controllo della situazione. Non piangeva.
– Dai, tesoro, vieni con me in camera da letto. Ti mettiamo un po’ a posto, hai bisogno di riprenderti. Ci penso io.
Tesoro, strano vezzeggiativo per una donna che non l’aveva mai compresa e tantomeno apprezzata. Erano così diverse: Valeria elegante, sofisticata, decisa e quasi aggressiva nel suo essere irrimediabilmente femmina, lei – Gianna – in difficoltà ogni volta che le era richiesto di indossare un vestito elegante o un paio di scarpe con i tacchi ma a proprio agio in una sala operatoria o in una biblioteca o agli incontri culturali che annoiavano Riccardo. Valeria spiritosa, sensuale e brillante, Gianna intellettuale, simpatica ma un po’ pedante, silenziosa e amorevole con le nipoti e con i pazienti. Valeria non la capiva e ne temeva il giudizio, Gianna ricambiava la diffidenza scacciando il senso di inferiorità quando erano in costume da bagno o a una festa della buona società. Tesoro non era l’appellativo adatto nella relazione che Valeria si era trovata a stabilire con lei: erano parenti acquisite incapaci di amalgamarsi nel nome dell’amore per i due fratelli Conti.
La seguì in camera da letto, al piano di sopra. Il letto era in disordine, il libro di Riccardo stava ancora sul pavimento dove l’aveva lasciato prima di avvicinarsi a lei e baciarla. Poi le aveva tolto la camicia da notte e non avevano dormito. Si rese conto che le lenzuola mostravano segni evidenti di ciò che era accaduto e Valeria aveva gli occhi su quei segni, ma fu un istante: si avvicinò al letto e iniziò a rassettarlo con gesti nervosi, poi raccolse il libro e lo posò sul comodino. Lo appoggiò obliquo: era lo stesso modo di mettere il libro, anche Riccardo lo lasciava così. Quando si voltò aveva il volto pieno di lacrime: il trucco si era sciolto, era un clown brutto.
– Scusami, Gianna, adesso passa. Se vuoi ti accompagno in bagno, fai una doccia oppure ti metti nella vasca da bagno. Sto con te, se vuoi.
Se vuoi. Sperava davvero di fare qualcosa per lei. Annuì e si lasciò accompagnare in bagno, anche se non avrebbe voluto lavare via il sangue di Riccardo.
Fissò lo specchio e aprì il rubinetto. Acqua fredda: il sangue se ne va prima se l’acqua è fredda. Non notò Valeria che la osservava. Mosse le mani ed eliminò in silenzio gli ultimi segni di suo marito.

(Continua…)

© MariaGiovanna Luini, 2015

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