Corteggiamenti [30] di Alessandro Morbidelli

Corteggiamento_30_disegno di Ilaria Iobbi
disegno di Ilaria Iobbi

COME TRA BAMBINE CHE CANTANO

«Lascia stare quella bottiglia! Ti tagli!»
La voce di mia nonna ancora la ricordo bene. Anche se lei è da un po’ che non c’è più.
«Come faccio a tagliarmi, mica è rotta?» le rispondo. Ho solo sei anni.
«La stringi troppo forte e poi quella si rompe…»
Le cose che non ti vengono raccontate, a volte, le incontri per caso. Come quando decidi di fermarti al bar del paese non perché tu non abbia ancora fatto colazione, ma così, perché hai un po’ di tempo. Entri, saluti il postino in pensione, scorri con lo sguardo le prime pagine dei giornali sparsi sul tavolo tondo vicino al frigo dei gelati. Chiedi il caffè a Marcello. E scopri che Gelside adora i bignè, quelli con la glassa bianca sopra. Ne sta mangiando uno seduta a un tavolo.
«Guarda ‘npo’ chi c’è… Alessa’!» dice e tu le sorridi. Ti siedi accanto a lei. Guardi le tette di Olga, che le sta accanto, intenta a scrivere un messaggio sul cellulare.
«Allora Gelsi’? Come va?» le chiedi.
«Eh… come va… da pori vecchietti…» ti dice mostrandoti i suoi tre denti sporchi di crema, «Però ‘ste pasterelle de Turco me piacene ‘mbelpo’…»
«Spetta, ce ne famo porta’ ‘n’altra…» le dici con un occhiolino, ma Olga è spietata: «No! C’ha la clazimia alta!», dice senza alzare lo sguardo dal telefono. Gelside si stringe nelle spalle e sorride: «Però ‘n goccetto de spuma mel fai pia’, eh, sennò moro de sede… eppo’ se dice glicemia, no cazzimia o quel che hai detto te…». La notifica di Whatsapp è la risposta della badante.
Gelside la spuma la prende. È Marcello in persona che le versa un bicchiere pieno fino all’orlo. Lei lo guarda con una luce strana negli occhi e poi mi dice: «Vedi ‘ste buttije? È ‘rmaste uguali a quando eravamo piccole no… Te l’ha rcontada mai tu nonna della buttija de vi’ roscio?»
«No, non me l’ha mai raccontata…»
«Non me chiede ‘l perché, non me ricordo se era stada ‘n’idea de Mariuccia, fatto sta che ‘na madina andamo in giro pe’ l borgo a canta’ bandiera rossa la trionferà con ‘n fazzoletto legado ‘n cima a no zeppo… La sera ce chiamane. I fascisti avevane preso a mi padre e al padre de tu nonna. A Mariuccia el padre j’era morto. Ce portane avanti casa. Tu’ nonna c’aveva ‘na bottija de vi’ nte le ma’. C’hanne detto “Adesso vi facciamo cantare noi!” e giù bastonade a babbo e a nonnedo. Erane tanti. Quando hanne finido, tu’ nonna era tutta molla de vi’. Avea stretto quella bottija cuscì forte ché je s’era rotta addosso, le ma’ tutte tajate… Era ‘na buttija cuscì, proprio come quessa della spuma…»
Angela è bella come l’onda calda che si scioglie poco sopra al ginocchio, mentre entri in acqua. Bella come il riverbero del sole che tramonta sulla linea tenue dell’orizzonte, in infinite scintille spruzzate sul mare. Angela è qui da pochi giorni, viene da Birmingham e a Birmingham non c’è il mare. Quello marchigiano lo adora. Forse perché non ne ha visti altri, di mari italiani. È qui con una mia cara amica, Elisa, bella come la sabbia d’oro della spiaggia e come l’ombra a mezzogiorno sotto le foglie di palma annodate. Sono amiche e da amiche condividono le vacanze. Passiamo queste giornate sul bagnasciuga, fino a quando non tramonta il sole. Allora entriamo in acqua per un ultimo bagno, ci avviciniamo tutti e tre quel tanto che basta a scambiarci i respiri e gli schizzi a pelo d’acqua. Poi usciamo, raccogliamo le nostre cose e ceniamo al Localino. Sapori nostri, salumi, formaggi, crescia. E vino. Lacrima anche se è caldo. Verdicchio.
Stasera si festeggia un compleanno, ci sono dei ragazzi vicino a noi che hanno una grande torta piena di panna. Ce ne offrono un po’ e noi accettiamo.
C’è anche un concerto. I musicisti sono quattro ragazzi scalmanati che hanno costruito i propri strumenti musicali con materiali di riciclo, tubi di gomma, scatolame vario, imbuti. La festa, sulle loro note, vola. Il vento caldo sfiora i cuori. Il profumo del mare, di Elisa e di Angela, disseta la vita.
Poi i musicisti intonano “Bella ciao”. Piano piano, tutti iniziamo a cantare. Una mattina mi son svegliato… e uno dei musici a soffiare un piripì piripa nel tubo di gomma.
Solo un temporale improvviso potrebbe rovinare tutto. Eppure la musica si ferma. Uno dei musicisti riceve un mojito sul petto, una macchia ancora più nera sulla maglietta nera. Poi il bicchiere che conteneva il mojito, per fortuna di plastica, in faccia. Due ragazzi scuri di capelli, spalle larghe e occhi aguzzi, si piazzano davanti al palco. L’orfano di mojito stringe una bottiglia di Heineken. L’altro fa il saluto fascista, mano destra tesa in avanti, ai musicisti. Ma il saluto fascista non era un omaggio? Mi chiedo. Perché lo fai a chi ti sta sul cazzo?
In molti si alzano e si spostano. Molti, ma non tutti. Un signore dai capelli bianchi cerca il dialogo. «Andatevene se non vi piace, che cazzo volete?», poi quello che ha lanciato il mojito, uno dei pezzi grossi di un movimento neofascista locale, uno che è andato anche in televisione a mostrare la cravatta, sbraccia. Piovono strattoni. Crepitano urli e sbandano spintoni. I geni dell’italico onore se ne vanno con la coda tra le gambe, spettinati e minaccianti.
Io mi trovo lì in mezzo, non so nemmeno come ci sia arrivato. Ho un graffio sul petto.
Poi qualcuno mi arriva da dietro e mi dice «Se li becchi con questa li ammazzi, dobbiamo ancora stapparla. Dai, ridaccela…»
Solo allora mi accorgo di stringere per il collo la loro bottiglia di spumante, quello della festa: è pesante, piena. I musicisti, scossi, ricominciano a suonare dopo un po’. La tavolata riprende a festeggiare. Un tizio stappa la bottiglia di spumante e metà ne va per terra. Io torno dalle ragazze. Passo dopo passo mi accorgo di quanto siano rimaste lontane. Elisa viene da Treviso, non fa una piega. Angela, impaurita, mi dice: «Come si chiama questa cosa? Aggresismo? Aggresione?».
Mi volto verso gli altri che ancora stanno appresso al palco, molte sono ragazze, uno si massaggia un orecchio, molti sgranchiscono le mani. Come me, hanno gli occhi di chi è libero.
«Resistenza…», le dico, «Si chiama Resistenza…»
Marcello lo fa buono il caffè. Gelside è morta verso la fine dell’estate, le tette di Olga adesso le guarda solo Vincenzo. Da allora ogni tanto, mi fermo al bar e prendo un bignè di Turco. Al primo morso, quando esce la crema dai lati, mi immagino che a sentire quel dolce così fresco sia una bambina che un giorno d’estate ha cantato una canzone. Una bambina che notte la sera si è trovata con il vestito pieno di vino e le mani tagliate. E penso pure che la mia bocca sia la bocca di Gelside, tre denti e tanti ricordi. La immagino bambina, insieme a mia nonna, insieme a Mariuccia. Cantano. Libere di poterlo fare.

Nota dell’autore: la finzione di questo racconto è poca. L’immaginazione a volte trova quello che deve trovare nei ricordi e si limita negli interventi. Cambia qualche nome, qua e là, trasforma una birra in un mojito. Solo il succo non cambia, a prescindere da tutti i bicchieri che possono essere lanciati contro l’arte e contro la cultura. Buon 25 aprile a tutte le persone libere.

© Alessandro Morbidelli, 2016

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