Come una volta

Immagine: Bianca Van Dijk

«Io qui non ci resto, hai capito?» Marco urla e io urlo più di lui.
«Tu fai quello che ti dico io. E non esci di qui!»
Siamo faccia a faccia, ci separa solo la distanza del nostro respiro.
I suoi occhi che bruciano di rabbia e i miei, se potessi vederli, so che mi rimanderebbero lo stesso sentimento.
«Fammi passare, mamma.» Ha abbassato il tono della voce. Mi guarda freddo e furibondo. Percepisco il suo corpo di sedicenne, muscoloso e atletico, vibrare. Ma io non cedo di un millimetro e non mi muovo, nonostante la paura che mi coglie d’improvviso: Marco potrebbe colpirmi. Marco vorrebbe colpirmi. Lo sento. Lo so.
«D’accordo» dice e il suo corpo sembra rilassarsi. È così che riesce a imbrogliarmi. Mi rilasso anch’io, questione di un secondo e Marco schizza al mio fianco, mi sorpassa e prima che io possa afferrarlo, ha già spalancato la porta ed è fuori.

Lo sento precipitarsi giù dalle scale. Un rumore sordo, come se un esercito stesse marciando fuori da casa mia.
Gli corro dietro, ma già sul pianerottolo realizzo che non lo raggiungerò più. Sento il ronzio del portone di sotto che viene aperto e il rumore della strada irrompe per un istante. Poi la casa sprofonda nel silenzio. Mi appoggio allo stipite della porta, senza forze.
Squilla il cellulare e resto alcuni secondi immobile, inebetita dal dolore e dalla rabbia.
Rientro in casa mentre lo prendo dalla tasca con gesto stanco.
«Pronto?» dico.
«Ciao, sono io.» Lara, la mia migliore amica. L’unica che mi è rimasta, per la verità.
«Ciao.»
«Come stai? Ti sento strana.»
«Ho litigato con Marco.»
«Ancora?»
Rilascio un sospiro e mi esce un “Sì” sussurrato.
«E il motivo ‘sta volta?»
«Vuole andare a Berlino con un suo amico.»
«Quando?»
«Domani.»
«Domani? Ma se deve andare a scuola… E cosa ci sarebbe a Berlino che non può aspettare?»
«Un raduno di non so cosa… collezionisti di fumetti, una roba così. Ma non è questo il problema, il problema è che non riesco più a tenerlo a freno. Da quanto Stefano è morto è come se Marco si nutrisse solo di rabbia. È come se…» a questo punto non sono più in grado di parlare e scoppio a piangere.
«Vengo da te. Arrivo.»

Non riesco a dire né sì né no. Lara sta venendo qui. È così, una donna pratica e disponibile che mi vuole un gran bene. Non si perde in inutili giri di parole. Se tu stai male, lei arriva. Lo ha sempre fatto da che ci conosciamo, e ormai sono passati quasi trent’anni.
Poso il cellulare sul tavolo senza smettere di piangere. Non riesco a fermarmi. Questo pianto lo sto aspettando da un anno, dal giorno in cui mi hanno telefonato per dirmi che Stefano aveva avuto un incidente ed era in ospedale. In realtà lui era già morto, investito da un automobilista ubriaco. La persona che aveva chiamato e che non ricordo più chi fosse, non aveva avuto il coraggio di dirmelo.
Non piansi allora e non piansi al funerale. Dovevo consolare Marco che sembrava essere crollato dentro se stesso. Dovevo essere forte per lui, mi dicevo.

Le prime settimane dopo la morte di Stefano passarono in una sorta di dolore attutito. Mi sembrava tutto irreale. Mi occupavo delle faccende burocratiche, del lavoro, della casa come se non fossi io ad agire ma qualcun altro fuori di me. Stavo vicino a Marco e lo osservavo. Dopo il primo momento di shock sembrava si stesse riprendendo e questo mi faceva sentire sollevata. Ma il dolore forse mi impediva di vedere davvero. Di vedere che Marco si allontanava sempre di più da me e quando me ne sono accorta è stato troppo tardi. La sua rabbia è diventata un motore che lo spinge ad andare avanti e che si alimenta da sola. Quello che stavo per dire a Lara prima di scoppiare a piangere è che ho la sensazione che lui dia la colpa a me per la morte di suo padre. Lo so che è assurdo, ma è così che mi fa sentire: colpevole.
Mi sposto in cucina, apro il frigo e prendo una bottiglia di aranciata. Odio l’aranciata, non so nemmeno perché l’ho comprata. Me ne verso un bicchiere e la butto già d’un fiato. Lancio un’occhiata fuori dalla finestra e vedo delle grandi nuvole bianche che si rincorrono nel cielo. È una bella giornata di primavera. Di quelle mosse da una leggera brezza che sposta le nuvole e agita le gonne delle ragazze. Una di quelle giornate in cui io, insieme a Stefano e Marco, ce ne andavamo a fare delle passeggiate lungo l’argine del Po.
Quando Marco era un bambino di tre o quattro anni, lo caricavamo su una delle due biciclette e ce ne andavamo in giro, felici. C’era un posto che ci piaceva in modo particolare. Una villa abbandonata, poco lontana dalla riva del fiume, immersa in un parco incolto e lussureggiante. Marco impazziva quando lo portavamo lì. Non entravamo nella vecchia villa per paura che ci fossero pericoli, ma camminavamo per il parco – entravamo da un varco seminascosto da cespugli – e ci fermavamo all’ombra della grande quercia di fronte all’ingresso della villa a fare succulenti pic-nic.
Mentre osservo il cielo dalla cucina di casa mia penso a quanto sono lontani quei giorni e a come tutto sia cambiato. Precipitato.
Il citofono suona mentre sto asciugandomi le lacrime. Dopo pochi secondi sono tra le braccia di Lara. Lei è un donnone alto quasi un metro e ottanta e dal fisico possente. Non ha mai avuto un complesso di nessun genere, nemmeno quando eravamo ragazzine ed era decisamente più alta e grossa della media.
Mi stringe forte e mi guarda.
«Andiamo di là.» dico.
Ci sediamo sul divano in soggiorno, una di fianco all’altra. Lei mi tiene una mano e mi sembra di essere una bambina sperduta. Non riesco a smettere di piangere.
«È come se mi accusasse di essere ancora viva….» dico tra le lacrime.
«Non dire sciocchezze! Marco ha sedici anni e come tutti i sedicenni è arrabbiato con il mondo. Ce l’ha con te, con me, con gli adulti tutti.»
«Credevo mi volesse picchiare oggi…»
Lara mi stringe la mano e scuote la testa.
«Te l’ho mai raccontato di quando Martina mi ha mollato un ceffone?»
Smetto di colpo di piangere e la fisso allibita. Martina è la sua figlia maggiore. Ha diciotto anni ed è la ragazzina più dolce che abbia mai conosciuto.
«Mi stai prendendo in giro?»
Fa una smorfia che forse dovrebbe essere un sorriso. «No. Non l’ho mai detto a nessuno perché mi vergognavo. Soprattutto per lei. È successo l’anno scorso. Era da mesi che continuavamo a litigare. Stava con quel ragazzino, Alessio, te lo ricordi?»
Annuisco.
«Pretendeva di uscire tutti i sabato sera, ma io e suo padre non avevamo nessuna intenzione di concederle una cosa del genere. Una volta ogni tanto, ok, ma tutti i sabato… E quella sera lei doveva uscire con Alessio. Andrea non c’era, eravamo in casa sole. Mi chiede se può uscire, le rispondo di no, che ne avevamo già parlato. Lei non dice una parola, ma dopo dieci minuti la vedo vestita di tutto punto, vicina alla porta d’ingresso. Non ci ho più visto, le sono saltata addosso come una iena e l’ho afferrata per un braccio urlandole non mi ricordo più cosa. Lei si è divincolata e mi ha dato uno schiaffo in faccia.»
Io sono sempre più sorpresa. Cerco di immaginarmi la scena, ma proprio non riesco a vedere Martina fare una cosa del genere.
«E tu?»
Lara mi lascia andare la mano e appoggia la schiena al divano. «E io gliene ho mollati due così forti che le ho fatto sanguinare il naso, poi l’ho spedita in camera sua e le ho proibito di uscire fino a che non mi fossi calmata. Sapevo che se mi fosse rimasta davanti l’avrei picchiata anche più forte. Poi sono stata malissimo. Mi pareva di essere precipitata in un incubo…»
«So di cosa stai parlando» dico ripensando all’ultima scenata con Marco.
«Dopo alcune ore Martina è uscita dalla stanza, piangendo disperata. Mi ha chiesto scusa. Anzi, perdono.» Lara ora sorride ma in modo sereno. «Abbiamo parlato tanto e da quella sera, con il tempo, le cose si sono ristabilite.»
Io scuoto la testa. «Martina non aveva un dolore da gestire grande come la morte improvvisa di un padre.»
«Lo so, ma Marco è un ragazzo sensibile e intelligente. Uno dei ragazzi più intelligenti che abbia conosciuto. Parlagli. Dagli tempo. E datti tempo, Agnese. Il dolore è una brutta bestia che morde e mastica e rende deboli. Voi dovete essere più forti di questo dolore.»
Mi asciugo le lacrime che ora scorrono più lente. «Mi sembra di non avere più parole da dirgli, Lara. Mi sento stanca e prosciugata. E sola. Dio, quanto mi manca Stefano!» scoppio a piangere di nuovo.
Lara mi abbraccia e mi stringe forte. Mi sono sempre piaciuti i suoi abbracci. Non è un gesto formale. No, quando Lara ti abbraccia ti senti accolta. Ti senti approdata da qualche parte, al sicuro.
Mi raddrizzo di colpo e ho come un’illuminazione.
«Che c’è?» domanda allarmata.
Realizzo che da quando Stefano è morto, non ho mai abbracciato Marco. Non così come sta facendo Lara, almeno. Mi ha sempre trattenuto una sorta di paura, di pudore. Non so spiegarlo. Come se fossi terrorizzata all’idea di incontrare la forza del suo dolore. Avevo paura di non poter reggere.
«Devo trovarlo» dico afferrando il cellulare e digitando il numero di Marco. Nel frattempo mi alzo e vado a infilarmi le scarpe da tennis. Il cellulare suona a vuoto. Lara mi segue guardandomi come fossi pazza.
«Senti, io vado. Se vuoi, resta pure qui.»
«Vengo con te.»
«No, devo andare sola.»
«Ma se non sai nemmeno dov’è?»
«Sì che lo so.» Mi precipito giù dalle scale come ha fatto Marco un’ora prima e lascio Lara sulla porta.
«Se vai via, chiudi tu.» grido mentre scendo rapida.
«D’accordo.» grida di rimando.
Corro nel punto in cui è parcheggiata la mia bici, ci monto sopra e comincio a pedalare come una disperata, senza quasi guardarmi attorno. Un paio di volte sento il rumore di una frenata d’auto e delle imprecazioni, ma io pedalo e pedalo. L’aria sulla faccia mi sembra rigenerante e asciuga il sudore che mi corre a rivoli lungo la schiena. Non penso a nulla, pedalo e basta.
L‘argine è al mio fianco. Sorpasso due ragazzi che fanno jogging, una bambina che scivola sui pattini come una ballerina, due uomini e una donna anche loro in bicicletta. Pedalo, senza sosta, senza badare ai crampi che mi stanno segando i muscoli delle gambe. Non sono abituata ad andare così veloce, sono giù di allenamento. E pedalo, pedalo. Sfreccio di fianco a un signore anziano e al suo cane che gli trotterella al fianco. Mi infilo in una stradina sterrata sulla sinistra senza nemmeno rallentare. Alla mia destra corre una recinzione coperta da rampicanti. La villa è poco lontana. Mi fermo, butto la bici a terra e corro verso il varco in cui ci siamo infilati tante volte con Stefano e Marco, sperando con tutta me stessa che la mia intuizione sia giusta.
Ed è così.
Dopo aver percorso una cinquantina di metri, vedo la quercia dei nostri pic-nic. E appoggiato al tronco, le gambe rannicchiate contro di sé, c’è Marco. Resto ferma alcuni secondi, piegandomi in due per la mancanza di fiato e temo di cadere a terra per il dolore che mi sta artigliando le cosce. Respiro piano e riprendo il controllo, poi mi avvicino a mio figlio.
Quando sono davanti a lui, mi blocco.
Ha la testa appoggiata all’albero e gli occhi chiusi.
«Ciao tesoro» dico.
Lui non si muove. Non apre gli occhi. Non parla.
«Posso sedermi vicino a te? Credo di non poter stare in piedi un minuto di più. Sono troppo vecchia per le corse in bici.» Mi sforzo di ridere ma mi esce solo un verso che assomiglia a un miagolio.
Marco non parla. Io prendo il suo silenzio come un assenso e mi lascio cadere accanto a lui.
«Ero certa che ti avrei trovato qui», dico giocherellando con un filo d’erba. «Quasi certa. Ultimamente non sono certa di niente, in verità.» Mi guardo attorno e sono travolta da mille emozioni.
«A papà piaceva venire qui» dico.
Percepisco il corpo di Marco irrigidirsi. È il primo segno di vita da quando sono arrivata. So di essere su un terreno pericoloso, ma non mi fermo.

«Mi dispiace per oggi. E per tutte le volte che abbiamo litigato. Sai, mi sono resa conto che da quando papà è morto io e te non abbiamo mai parlato di lui. Non più di poche frasi. E sai perché?»
Lo guardo, lui tace ma so che è attentissimo alle mie parole.
«Perché abbiamo paura. Abbiamo paura della realtà. Pensiamo che se non ne parliamo questa cosa non esisterà. La sua morte non esisterà. Invece non è così, tesoro. Papà è morto e noi siamo vivi. È terribile quello che è successo. Ingiusto. Tremendo, ma è così. Papà non c’è più. Però noi siamo vivi, Marco. E dobbiamo continuare a farlo e non ti dirò la solita frase ‘Dobbiamo farlo per lui’. No. Dobbiamo farlo per noi. Per noi due. Per me e per te. So che sei arrabbiato e disperato. So che non è facile e che non lo sarà. Ma voglio che tu sappia che sei la mia vita, che ti voglio bene come non è nemmeno possibile dire. E che sono qui, per te. Sempre. Quando vorrai, quando ne avrai bisogno. Sempre.»
Ho parlato tutto d’un fiato e ora mi sento sfinita, ma mi alzo, con le ultime forze che mi sono rimaste.
Lui, invece, non si muove.
«Io vado a casa Marco. Vieni con me.»
Alza la testa. Ha gli occhi pieni di lacrime e mi pare fatichi a respirare. Mi obbligo a stare ferma.
«Viene a casa con me» ripeto.
Trascorre un tempo che mi pare lunghissimo. Poi lo guardo alzarsi a fatica e restare lì, immobile. E mi sembra così piccolo e vulnerabile che fatico a non scoppiare in lacrime. Ma oggi ho pianto abbastanza.
Gli vado vicino e lo abbraccio stretto, strettissimo, come non ho fatto in tutti questi mesi, forte come una madre deve abbracciare un figlio spaventato e pieno di dolore. Lui, in un primo momento resta fermo, e poi alza piano le braccia e mi stringe a sé, forte, fortissimo. Come un figlio deve abbracciare una madre spaventata e piena di dolore.
«Andiamo a casa, mamma» sussurra.
«Sì, ma pedalando piano, ok?»
Ridiamo tra le lacrime mentre la brezza soffia leggera.

©Barbara Garlaschelli

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