Cenere di Carmen Covito

Carmen Covito

è

Eleonora Duse

(Attrice)

 

Ah! le violette autunnali, come sono belle! che gentile pensiero, grazie — lei indovina i miei gusti molto meglio di tanti donatori di rose. Ma si accomodi, venga, non stia lì in anticamera con quell’aria confusa, altrimenti mi costringe a scusarmi di nuovo per la sgarbatezza della mia Désirée — gliel’ho detto, l’aveva scambiata per una giornalista, è normale che le abbia chiuso la porta in faccia. Chiudere la porta in faccia ai giornalisti fa parte delle mansioni della mia Désirée, lo sanno tutti: e lei non si azzardi a smentire, mi raccomando! Anche se mi sono ritirata dalle scene non ho nessuna intenzione di perdere i frutti di una strategia di comunicazione che ho impiegato tanti anni a costruire. Altro che Sarah Bernhardt! La povera Sarah, alla sua età e su una gamba sola, fa ancora i salti mortali pur di richiamare i reporter, come quando era giovane e andava in giro con un alligatore al guinzaglio. La Duse no. La Duse mandava al diavolo anche i re, se si permettevano di presentarsi nel suo camerino al momento sbagliato.

Un dolcetto? Oh, sì, brava, ne prenda anche un altro! non se ne può più di scheletrite inappetenti alla Ida Rubinstein, vero? da come se li gusta sembra proprio che sia d’accordo con me — no, io no, io non sono golosa di dolci, grazie, lo ero solo di vita. E ora che si è spolverata ben bene quelle briciole, veniamo agli affari. Se ho capito bene quello che mi ha scritto nella lettera — magari il suo francese sarebbe da sistemare un po’, lo parla molto meglio di come lo scrive, sa? mi permetto di dirglielo visto che è così fanciullina — questo nuovo metodo clinico consiste nel far dire tutta la verità, o la maggior parte possibile di verità, senza riguardi per nessuno. Quindi comincio subito: quanti anni ha lei, diciassette? diciotto? mi riesce difficile credere che sia già laureata in medicina e già… come si dice, analista? Anche se si è vestita tutta di grigio scuro senza un fronzolo che sia uno, me lo lasci dire da vecchia professionista quale sono, questi suoi occhioni glauchi e questi bei capelli così biondi, proprio da bambolina tedesca, non la rendono più credibile nel ruolo.

Ah, ora ci siamo. Studentessa. In realtà non sarebbe ancora autorizzata a trattare pazienti. Ma ha bisogno di un caso interessante per solleticare — sollecitare! l’attenzione del professor Abraham e farsi ammettere alla Società Psicoanalitica di Berlino. Ammirevole! Davvero, non sto scherzando. “Lavorate! — ho sempre detto alle donne che mi scrivevano chiedendo consigli — Lavorate! All’uomo non chiedete sostegno, ma soltanto amore. Allora la vostra vita avrà il significato che cercate.” Semplice e difficile insieme, no? Ma lo riscriverei anche adesso che la mia vita mi sembra insensata, e mi sento morire, qui, e non abbastanza in fretta. Lei è venuta a bussare alla mia porta in cerca di qualcosa che posso darle senza sforzo: ho il pomeriggio libero — tutti! tutti i miei pomeriggi sono liberi! e senza niente di nuovo da studiare mi annoio. Vuole il suo caso clinico di nevrotica di genio, la bestiolina rara, la donna disperata e nomade, la divina Eleonora? Me voilà.

Rilassarsi, distendersi, lasciar fluire, certo. E non vedere chi ci sta ascoltando, capisco. Va bene se mi metto sulla chaise-longue? di solito la uso per leggere, è un comodo sistema per fare due cose al tempo stesso, coltivare la mente e riposare i piedi dalla stanchezza.

Non sono mai riuscita a stare ferma a lungo in nessun posto. Stanze di grande albergo o di pensione, vagoni letto, cabine di nave, appartamenti in affitto, case in prestito, camere di amiche… A causa del mestiere, sì, certamente: questo stramaledetto mestiere dei comici vaganti che ho tanto odiato, che un po’ ho cambiato. Ma poi si sa che quello che detesti, se lo pratichi a lungo, ti entra nel sangue — e il mio dev’essere un sangue sciampagnino sempre pronto a frizzare, che non dà tregua alle membra. Perfino adesso che non lavoro più e che una casa mia ce l’avrei, quasi finita di sistemare, tra le dolci colline e le vallette di Asolo, eccomi qua che appena tornata da una visita a mia figlia in Inghilterra me ne vengo a Venezia e andrò poi forse a Tivoli, o a Firenze, non so ancora. I miei attori durante le tournée dicevano ridendo che non si era mai sicuri di ritrovarmi la mattina nella stessa camera in cui mi si era vista entrare la sera! Una volta, a Parigi mi pare, costrinsi la direzione dell’albergo a cambiarmi di camera cinque volte nella stessa giornata: ma non erano capricci da diva, era solo quel tipico bisogno di sentirsi a casa dentro l’estraneità che affligge tutti i viaggiatori obbligati. Come facevano tanti, anch’io per abitudine cercavo di trasformare le mie stanze d’albergo nella stessa identica stanza. E quindi se me ne davano una troppo arredata facevo portar via la maggior parte dei mobili, spostavo il letto in modo da poter riposare dando le spalle alle luce, appendevo qua e là riproduzioni d’arte e le poesie che in quel momento trovavo confortanti, appoggiavo su un tavolo la maschera di Beethoven e la scatola d’argento con le bandierine navali che mi servivano a far finta di essere superstiziosa come tutti gli attori — ricavavo pronostici osservandole sventolare a caso — e potevo finalmente mettermi in vestaglia a esaminare la nostra posizione sui giornali locali, sentendomi padrona del terreno. Un’illusione fragile: perché non siamo mai veramente padroni ma, come grazia massima, ospiti di noi stessi — e non appena questa sgradevole coscienza comincia a penetrarti sotto pelle, ecco, le bollicine dello champagne venoso impazzano e sei pronta a volertene andare in un’altra illusione, purché sia altrove e subito.

Sono nata su un treno, dicono. Non è vero: la mia povera mamma riuscì a tenermi dentro fino al prossimo albergo sulla strada, il Cannon d’Oro di Vigevano, e in ogni caso la compagnia teatrale di mio padre a quell’epoca, era il 1858, non poteva permettersi il treno. Si spostavano ancora con il carro come quei guitti che erano. Ma non parliamo di loro — non ora. Volevo solo chiedermi se dipende da quei viaggi continui dell’infanzia questo senso costante di oscillare tra nostalgia e disgusto a ogni fermata. Oscillare, ondulare, vacillare… Adelaide Ristori, la marchesa del Grillo, la più grande impresaria nel teatro italiano prima di me, una volta ha raccontato — con ammirazione onesta — che, per esprimere la determinazione e insieme il ribrezzo provati da un personaggio nell’affrontare un momento cruciale, io entravo in scena “come camminando sui serpenti”. Tecnicamente esatto: ci voleva un’altra attrice per notarlo con tanta precisione. Però quello sarebbe il mio passo normale, se non lo controllassi.

In quanti posti ho messo piede! Le nazioni che ho visto! Francia, Russia, Germania, Austria-Ungheria, Stati Uniti d’America, Argentina… «Per lei quale paese è il più bello del mondo?» mi domandano appena sbarcata dal piroscafo, e io: «La traversata!» a bruciapelo. Posso sembrare timida, ma non ho mai mancato una battuta. L’ho imparato prestissimo che nella vita non c’è il suggeritore a salvarti se hai un buco di memoria o un attimo di debolezza femminile. Sa, mi hanno buttata in scena come tutti i figli d’arte troppo presto, a cinque anni: facevo la parte di Cosetta in una riduzione dei Miserabili, e dato che dovevo impietosire il pubblico piangendo mi beccavo schiaffoni e pizzicotti quasi veri ogni sera. Strano, no?, che il teatro mi sia poi venuto così in odio — tanto che l’ho lasciato non appena possibile — cioè non appena compiuti i cinquant’anni. Perché non ride? Non lo trova paradossale?

Ah. Voi psicoanalitici conoscete il fenomeno. Si chiama ambivalenza. Che bel nome. Adesso so come chiamare quel mio sentimento di prigionia preziosa. Allora sapevo solo che come una bestia da serraglio, la mia volontà e il mio pensiero andavano su e giù, su e giù, fra la stretta gabbia formata da queste due, inevitabili e terribili parole: partire, lavorare. E dovevo combattere spesso con la tentazione di lasciarmi cadere. Eppure, quando un’unica soluzione mi sembrava possibile, quando morire mi incantava, la sola vista di una curva di cielo — o di collina, o un albero, un soffio d’aria, bastava a trattenermi: era un altro incantamento che sentivo, non l’incanto della mia vita, ma della vita, che è delle cose, dell’aria, della terra e del cielo! — e così ci si rappattuma con l’esistenza, si transige per incanto delle cose eterne, sulle cose strazianti ma transitorie (noi) e non si muore. Infatti eccomi a sessant’anni che mi sto gingillando con il desiderio di tornare al teatro, ma un teatro tutto mio, ma un teatro nuovo. Nessuno può vivere senza sogni e senza gioie. E, sa una cosa? la nostra vera gioia di attrici non è quando si sta recitando davanti a un teatro pieno di gente, e si aspetta l’applauso che forse ci sarà, ma piuttosto, “verso sera, quando si arriva soli alla porta degli artisti e si attraversano i corridoi bui del teatro, si salgono le scalette poco illuminate per ritrovare i compagni che aspettano la prova. Allora sul palcoscenico ci sono pochi lumi in mezzo alle grandi ombre oblique delle quinte, la platea è tenebrosa e deserta, i palchi sono come cuccette vuote. Non c’è altro che noi artisti, poveri attori e povere attrici, vestiti come tutti i giorni, con la sola compagnia del poeta che ha scritto l’opera da imparare. Siamo tra noi, senza estranei, senza intrusi e pensiamo solo al nostro lavoro… In quei momenti mi sembra quasi che siamo lì di nascosto, come per una cospirazione, una congiura, qualcosa di clandestino e di piacevolmente pericoloso…” Come giocare ai pirati sulle tavole del palcoscenico. Ancora una traversata, vede? E io ho sempre dato il meglio di me nelle situazioni di emergenza, davanti a una platea mezzo vuota che bisognava affascinare a tutti i costi per riempire il teatro nei giorni successivi: quando lo spettacolo sembrava già un totale fallimento, e tutti erano incerti, disillusi, senz’anima, proprio allora trovavo sempre un gesto particolare, una tonalità della voce più intensa, una concertazione improvvisamente perfetta, e la magia scattava, la scena si accendeva, l’emozione stringeva il pubblico alla gola e, di colpo, era mio.

Teatri affollatissimi. Trionfi. Ma che fatica. All’inizio soprattutto, sapevo di riuscire sconcertante, perché ero diversa, perché non facevo le cose altro che a modo mio, cioè nel modo come le sento: è convenuto che in certe circostanze bisogna alzar la voce, dare in escandescenze; e io invece, quando la passione che esprimo è violenta, quando l’animo mio è colpito dal piacere o dal dolore, spesso ammutolisco, e sulla scena parlo piano, a fior di labbra. Le parole mi cadono cupe, lente, a una a una I silenzi della Duse! ormai sono passati in proverbio.

Ma com’è che non mi chiede nient’altro di quando ero bambina? Voi psicoanalizzatori non volete sempre sapere tutto dei padri e delle madri? Be’, non si meravigli: non sono così ignorante da non aver sentito parlare del dottor Freud e delle sue curiose teorie sui sogni, e so che ammira Ibsen come lo ammiro io, anche se forse non per le stesse ragioni… Oh, a lei non interessano i genitori degli artisti, solo gli artisti? Bene, sono contenta, proprio oggi non avevo nessuna voglia di addentrarmi in vecchi nidi di vipere e batuffoli di nostalgia. Prenderebbe volentieri un tè? ho portato da Londra un Darjeeling buonissimo, fruttato. Ci facciamo una piccola pausa… Come non detto. Preferisce andare avanti. Ma almeno mi permetta di girarmi un po’ sul fianco. No, non mi giro indietro, solo sul fianco: non la guardo, promesso! Basta che ogni tanto mi faccia sentire la sua voce, è una voce bellissima, così roca ma ben impostata, una voce da cantante.

Che cosa posso dire… Le interessano le trovate della Duse? Sono famose quasi come le mie controscene. Per esempio, la trovata del bacio tra Margherita Gautier e Armando nella Signora delle Camelie: le altre interpreti si prendevano il solito bacio insipido sulla fronte, io no, io moribonda e tisica e mistica il bacio al mio amante glielo davo io, sulla bocca. In Antonio e Cleopatra, invece, quando arriva il messaggero e annuncia a Cleopatra che Antonio si è sposato con un’altra, io facevo un balzo addosso al messaggero, e lo buttavo a terra e cominciavo a batterlo e pestarlo coi piedi: era proprio il balzo di una tigre inferocita, tanto che il pubblico nelle prime file si tirava indietro d’istinto — una russa una volta andò addirittura a sbattere la nuca contro una colonna, da tanto si era spaventata. Facevo un sacco di cose con le mani, anche: toccavo in continuazione gli altri attori, li prendevo per il bavero o per il gomito, gli parlavo sul viso, mi sfioravo i capelli, cose così, apparentemente inutili, che però davano al pubblico un senso di partecipazione nervosa, quasi di vicinanza isterica… “Non sta ferma un secondo”, si lamentavano i primi critici, abituati alle pose statuarie delle grandi tragiche dell’Ottocento. Io ero già Novecento anche prima di saperlo.

Mi ha vista? Ma è impossibile. L’ultima volta che ho recitato a Berlino è stato nel gennaio del 1909, lei doveva essere una bambina… Il film?! Le è piaciuto il mio film, Cenere? ma davvero? Non è piaciuto a molti. Forse per il tema, così triste, basato sulla necessità d’una separazione fra madre e figlio. Il figlio vuole ritrovare sua madre che lo ha abbandonato — per il suo bene, dice lei, ma l’ha abbandonato — e poi vuole stabilire una forma di vita fra la sua donna e la madre — ma sia l’una forza che l’altra l’abbandonano. La fidanzata, per la vergogna di condividere la vita con una mendicante come la madre del giovane, e la Madre che si riconosce indegna di condividere la vita di suo figlio — anche però per orgoglio della povertà. L’avevo tratto da un bel libro di Grazia Deledda, e l’avevo fatto con tanto entusiasmo: improvvisamente, dopo cinque anni che non lavoravo, avevo ritrovato la cara Illusione della mia Arte, e mi dicevo «È ritornata — come un baleno! Tanta vita di me diedi e darò all’arte mia. Bisogna che la mia forza sia impiegata, non più a distruggere me stessa, ma a ricostruire. Bene, calma, Eleonora! tu hai sempre lavorato, torni sulla tua strada — se la salute ti impedisce il lavoro di un tempo — e se la tosse ti impedisce di parlare, allora fa dei film — L’Arte del Silenzio». Mi piaceva molto l’idea di fare un film, perché fare un film è come scrivere con la luce. Andavo spesso al cinema, a guardare, a studiare, e quando mi scrissero dall’America che Griffith mi voleva in California avrei fatto volentieri il viaggio, però mia figlia si inquietò molto e mi misi a aspettare che finisse la guerra e venisse in Europa lui, il grande regista, e intanto pensavo, pensavo, e vedevo sempre più nitido il progetto di un film da proporgli, su Michelangelo, sulla Cappella Sistina! avevo già tutto quel popolo negli occhi, l’umanità esule, oppressa, gemente, e scrivevo, leggevo, componevo, cantando di pura gioia… Ma sa come succede, che mentre cerchi qualcosa ne trovi un’altra che non stavi cercando, e così venne Cenere. Mi sono rivolta alla Casa Madre di tutte le case di film in Italia, ed è la Casa Ambrosio di Torino, una casa di un onesto operaio, salito per il suo lavoro a una vera ricchezza; gli ho telegrafato io stessa, e l’indomani il Direttore era da me — un brav’uomo, il vecchio Ambrosio, e buono a girare la manovella lui stesso, perché il suo cuore batte quando lavora e segue (soffre, diciamo) coi personaggi che filma, e intelligente: mi ha lasciato decidere tutto e ha fatto tutto quello che volevo io, e questo secondo me vuol dire essere intelligente. Un mondo interessante, il cinema: anche se certi giorni, lavorare sei ore al giorno nello stabilimento per le scene d’interno, una fatica cane: per gli interni bisogna lavorare alla luce elettrica sotto una tettoia di vetro bianco, un caldo! Guardandolo dopo, certo, c’è un sacco di difetti, posso capire come mai il successo non sia arrivato, ma l’impronta era bella e nuova: tutto molto naturale. Io non parlo mai per tutto il film. Il cinema non è teatro filmato, è un’altra cosa, tutto deve passare dal corpo, dal gesto. Inutile boccheggiare come pesci, se nessuno può sentire le parole. E quindi io sempre a bocca chiusa, sì, o no, con la testa — e ci sono dei no piuttosto tristi. Ma anche scene tanto belle: ce n’è una che mi piace, in mezzo a un grande campo fiorito, io la testa abbassata come una spigolatrice, e l’argento dei capelli bianchi, così luminosi come l’argento dei fiori.

Sì, è vero, uso parecchio i fiori in funzione espressiva, ma così come uso anche altri oggetti: guanti, sciarpe, ombrellini, lettere, soprammobili. Mi venne in mente la prima volta a quattordici anni: la trovata delle rose in Romeo e Giulietta all’Arena di Verona, quella recita così famosa perché d’Annunzio la fa raccontare dalla Foscarina nel romanzo Il fuoco, e tutti, tutti credono di sapere che la Foscarina sono io. Lo scandalo… Ma ne parliamo dopo. La trovata delle rose l’ha raccontata bene. Senta… E certo che la so a memoria!

“Avevo comprato col mio gruzzolo, nella piazza delle Erbe, sotto la fontana di Madonna Verona, un gran fascio di rose. Le rose furono il mio solo ornamento. Le mescolai alle mie parole, ai miei gesti, ad ogni mia attitudine: ne lasciai cadere una ai piedi di Romeo quando c’incontrammo, ne sfogliai una sul suo capo dal balcone, e di tutte ricopersi alla fine il suo cadavere nel sepolcro. Il profumo l’aria e la luce mi rapivano. Le parole scorrevano con una strana facilità, quasi involontarie, come nel delirio; e le udivo accompagnate dal rombo continuo delle mie vene. Vedevo il vaso profondo dell’ anfiteatro metà al sole, metà all’ombra, e nella parte illuminata un luccichio come di mille e mille occhi. Il giorno era quieto come oggi. Non un soffio moveva le pieghe della mia veste o i miei capelli che rabbrividivano sul mio collo nudo. Il cielo era lontanissimo e tuttavia mi pareva a quando a quando che le più deboli parole vi risonassero fino all’estrema lontananza come tuoni, o che il suo azzurro si facesse così cupo ch’io ne fossi colorata come da un’acqua marina ove m’annegassi. E i miei occhi andavano a ogni tratto verso le lunghe erbe che sorgevano alla sommità delle muraglie; e mi pareva che mi venisse da loro non so qual consentimento a quel che dicevo e facevo…”

La memoria per un’attrice è uno strumento di lavoro, null’altro. Non mi sognerei mai di scrivere le mie, di memorie. Scrivo lettere, telegrammi, appunti sui copioni. Se poi qualcuno vuol raccogliere idee, fatti, emozioni che ho seminato qua e là, bene: saranno ricordi altrui, non miei. Di tutte le biografie scritte sul mio conto, nessuna è esatta — tutte sono indiscrete. Ma il romanzo di d’Annunzio è un’altra cosa ancora, mi creda.

Ci eravamo incontrati una prima volta a Roma nel 1882, e non sapevo ancora chi fosse quel cronista mondano con i capelli biondi ricciolini e una fenomenale faccia tosta: io recitavo ancora con la compagnia del capocomico torinese Cesare Rossi, ero decorosamente sposata con il collega Tebaldo Checchi, avevo partorito e messo a balia mia figlia Enrichetta all’inizio dell’anno e stavo cominciando a avere un successo di pubblico e di critica entusiasta; il giovincello venne dietro le quinte del teatro Valle e con un sacco di parole alate mi propose né più né meno che di andare a letto con lui. Le parole con cui lo mandai a quel paese furono così terra terra che quando osò tornare dietro le quinte, nel 1884, era già piuttosto stempiato, aveva visto la Signora delle Camelie e si permise solo di gridarmi da lontano “O grande amatrice!” come un ammiratore qualunque. Dovevano passare altri dieci anni prima che ci incontrassimo di nuovo, quell’autunno a Venezia che scatenò la passione…

Lo sa che sta zitta da troppo tempo? Ci si sente strani a parlare così, con una specie di testimone muto dietro le spalle. Magari può andar bene per i matti normali, voglio dire quelli che avete voi di solito, psicopatici forse quanto le sembro io ma normali nel senso che non fanno gli attori di mestiere: per un’attrice invece è il mondo alla rovescia. Ha presente? in teatro noi parliamo rivolti alla platea, stiamo attenti a portare la voce fino in fondo alla sala, curiamo l’espressione del viso in modo che quegli occhi attraverso i binocoli ci possano scrutare bellamente — io, lo sa, non mi trucco mai, e anche di questo si sono stupefatti in molti all’inizio, poi ci si sono abituati e oggi si stupirebbero se facessi il contrario, se mi coprissi di belletto e rossetto e nerofumo per correggere l’età e adattarmi alla scena. Anzi, per dirla tutta, quando giungo nuova davanti a un pubblico che non mi conosce, il mio primo successo è di bruttezza. Con questo viso patito, angoloso, pallido, gli occhi neri un po’ opachi e la palpebra che talvolta cade stanca, in realtà, sono bella quando voglio: la bellezza per me è come un mantello, quando mi serve la metto, ma posso anche svestirmene a piacere. Se mi truccassi perderei quella virtù espressiva che secondo Hugo von Hofmannstahl era la rapida mutevolezza di volti che scorrevano sul volto. Se ne accorse benissimo quel furbacchione di George Bernard Shaw. Aveva recensito lo spettacolo Casa Paterna di Sudermann visto a Londra, e senta come mi descrive nell’incontro di Magda con il suo antico seduttore: “Fu interessante vedere come affrontò il primo momento, quand’egli entrò, e come, tutto sommato, riuscisse a superarlo abbastanza bene. Lui fece i suoi convenevoli e offrì dei fiori. Si sedettero: e lei, evidentemente, ritenne di aver superato il peggio e di potersi rilassare, e guardarlo, per vedere quanto fosse cambiato. Allora, le accadde una cosa terribile. Cominciò ad arrossire, e subito ne fu consapevole, e il rossore aumentò lentamente diffondendosi, finché, dopo qualche vano sforzo di voltarsi, o almeno di impedirgli di vedere, ella cedette, e nascose tra le mani il rossore del viso. Dopo un simile capolavoro di recitazione non ho più dovuto chiedermi perché la Duse non si trucchi”, e poi aggiunge che il rossore gli è sembrato non artefatto e gli è rimasta “una intensa curiosità professionale” su come riuscissi a ottenere quell’effetto. Entravo nel personaggio fino in fondo, ovviamente. Stanislavskij una volta ha detto a Meyerhold che l’idea del suo metodo gliel’ho data io, ma non so se è vero, perché a me l’ha riferito Vera Komissarzhevskaya quando aveva già litigato con Vsevolod Emilevich perché lui le smontava il palcoscenico sotto i piedi e lei strillava che va bene il Simbolismo ma fino a un certo punto… A proposito di entrare nel personaggio, che ne direbbe di farmi un massaggino alla cervicale? Visto che mi sta comunque dietro le spalle — mi fa un gran male, qui, guardi, proprio qui — sono sicura che lei ha delle mani di fata buona…

Ma no che non sto cercando di sedurla! Figurarsi! pensavo solo che avremmo potuto gettare un ponticello, attraversare, uscire da questa tonalità di resoconto così grigetta grigetta, come una fotografia ingiallita. Va bene, non insisto. Rimanga sulle sue. Prenda appunti.

Alla fine del secolo diciannovesimo ero già stufa delle commedie di Sardou e dei drammi di Dumas, che pure erano stati uno svecchiamento del repertorio italiano abbastanza rivoluzionario. Recitavo anche Goldoni, come aveva fatto mio nonno Luigi Duse, ma guardavo all’Europa. E se dovevo restare all’Italia cercavo opere nuove. Imposi a Rossi Cavalleria Rusticana di Giovanni Verga: nel 1884 quel buonuomo di Rossi aveva già accettato di prendermi come socia in ditta, anche se avevo solo venticinque anni e anche se spesso lo portavo al limite della sopportazione comportandomi come un’egocentrica dispotica intransigente e ostinata — perché perfettamente consapevole del proprio valore in termini di incasso. Rossi non capiva il verismo: scommise che si sarebbe lasciato decapitare se lo spettacolo non avesse fatto fiasco. Fu un trionfo, ma nessuno perse la testa e l’anno dopo partimmo tutti per la prima grande tournée transatlantica della compagnia Rossi-Checchi-Duse: Argentina, Uruguay, Brasile, il nostro inferno. Prima morì di febbre gialla l’attor giovane Arturo Diotti, poi si ammalò Rossi di malaria, poi scoprii che mio marito se la intendeva con l’ultima arrivata Irma Gramatica e per ripicca mi concessi al primo amoroso Flavio Andò — era uno stupido, ma era bello: e sulla scena era un compagno meraviglioso, si adattava alla mia recitazione come un guanto — un guanto vuoto, sì: col tempo si rivelò un mero esecutore, nel più utile e miserevole senso della parola — ma era stato un Turiddu affascinante, appassionato e caldo. La verità è che io mio marito non lo sopportavo più: oltre a continuare a fare l’attore nel suo solito ruolo — di “generico primario assai pregiato per correttezza di dizione”, dicevano — ma molto vecchio stile, dico io — da quando ci eravamo sposati si prendeva cura di tutta la mia vita professionale. Mi faceva da ufficio stampa, da addetto alle pubbliche relazioni, da segretario, agente, consigliere economico, ripetitore. Si occupava di tutto. Di troppo. Appena arrivavamo in una piazza nuova, si precipitava a corteggiare i giornalisti e le personalità in vista, portava lettere di raccomandazione, faceva inviti a cena, si infilava nei circoli influenti… Così, diceva lui, mi dava la libertà di dedicarmi alla mia arte senza preoccuparmi di tali volgarità. Io mi sentivo sempre più limitata, sminuita: sembrava che i successi dovessero dipendere da quelle sue manovre molto più che da me. Così quando sbarcammo in Sudamerica lo vidi che si stava preparando alla solita campagna promozionale e glielo dissi chiaro: «Ma lascia stare i giornalisti, e lascia che io mi guadagni i loro suffragi e quelli del pubblico, altrimenti diranno che anche qui sei tu che mi fai piacere e battere le mani!». Ci rimase di stucco, ma non mi dette retta, continuò con i suoi maneggi e dopo i primi successi si permise di vantarsene con me, usando certe frasi che mi fanno ancora mancare il cuore: «Vedi che vuol dire a mischiarmene io?» gongolò, e «Queste sono cose che le donne non possono né devono fare». Non mi tenni più. Gli gridai: «Credi forse che senza di te non potrei fare lo stesso? Io sono un individuo che può fare da sé, e sono stanca di sentirmi dire che sei sempre tu…» Se ne andò sbattendo la porta. Poi tornò e mi fece la predica: che lo sapeva che non era colpa mia, che era colpa della sua debolezza davanti ai miei capricci, e che ero guastata dai falsi amici, dalle letture malsane, dall’ubriacatura del continuo successo, e che con i matti e i fanciulli e gli ubriachi nessuno va in collera, e che mi perdonava per essermi stancata, infastidita, di un essere volgare come lui, insufficiente a poter dividere con lei la sua vita… A questo punto, qualunque donna si sarebbe attaccata al primo bell’Andò a tiro, e figuriamoci io. Viva la verità, e ognuno per la sua strada! Me ne sarei anche infischiata dello scandalo di una separazione per colpa (di chi? questo sarebbe stato da vedere) ma il marito della Duse decise di recitare la parte dell’eroe tragico che si sacrifica per il bene comune e annunciò a tutti che Tebaldo Marchetti in arte Checchi rinunciava alle scene, alla moglie e alla figlia: se ne sarebbe rimasto da solo a Buenos Aires, in volontario esilio.

Quel povero Tebaldo… L’anno scorso mi è arrivata una comunicazione del governo argentino che mi porgeva le condoglianze ufficiali e mi offriva una pensione — laggiù aveva intrapreso la carriera diplomatica, era diventato console, e probabilmente anche bravo. La pensione l’ho rifiutata, ma l’eredità no, non potevo: ci crederebbe, lei, che dopo trentatré anni di silenzio, quell’uomo ha lasciato i suoi risparmi di una vita a me e alla figlia? Trentamila lire circa. Io ne avevo spese molte di più solo per l’allestimento delle scene della Francesca da Rimini nel 1901 come scrisse Il Guerin Meschino: “stasera Francesca da Rimini, tragedia in 4.000 versi di Gabriele d’Annunzio e 100.000 franchi di Eleonora Duse”. Fu un fallimento grandioso, un bagno finanziario da brivido. Ma con Gabrì era tutto così, tutto un rabbrividire, un esaltarsi e poi cadere, rialzarsi e poi cadere di nuovo. “Taci. Su le soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane; ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane. / Ascolta. Piove / dalle nuvole sparse. / Piove su le tamerici / salmastre ed arse, / piove su i pini / scagliosi ed irti, / piove su i mirti / divini, / su le ginestre fulgenti / di fiori accolti, / su i ginepri folti / di coccole aulenti, / piove su i nostri volti / silvani, / piove su le nostre mani / ignude, / su i nostri vestimenti leggieri, / su i freschi pensieri / che l’anima schiude / novella, / su la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude, — o Ermione.” Sente, che meraviglia di enjambements? Oh, sì, penso ancora che sia valsa la pena di tutto quel soffrire. Quando pubblicò Il fuoco, la cosa che veramente mi ferì non fu, come pensarono tutti, l’aver messo in piazza la nostra relazione, con i furori e le gelosie, e con quelle impietose descrizioni del corpo non più giovane della Foscarina “gettata contro di lui come una femmina bramosa, con tutta la sua carne tremante”. Avevo solo cinque anni più di lui. E alle mie rughe d’espressione agli angoli degli occhi ci tenevo già moltissimo, altro che stare sveglia come la Foscarina per paura che lui la guardasse nel sonno e la trovasse vecchia. No, quello che mi aveva dato davvero fastidio — e non l’ho mai detto a nessuno, neanche a lui: lo dico adesso, per la prima volta, a lei — perché è una medica dell’anima — un’apprendista medica dell’anima, sì — e certe cose deve imparare a capirle: quello che veramente mi turbò nel romanzo di d’Annunzio fu quel paragonare la sua donna a un cane. La scena del giardino di Lady Mirta: quando la Foscarina in mezzo ai levrieri, vestita di un colore fulvo uguale al pelo del veltro più bello, “sentiva sorgere dalle radici della sua sostanza uno strano senso di bestialità primitiva”. Comprendo il dionisiaco, comprendo il senso panico della metamorfosi e la vita selvaggia: ma lui, quella volta che lo beccai a interpretare tra se e sé la lotta del centauro col cervo, a quattro zampe sul pavimento del suo studio emettendo bramiti e nitriti invece di starsene alla scrivania a lavorare come avrebbe dovuto, lui si era scelto bestie mitologiche, nobili, e a me invece pubblicamente dava della cagna. No, no. Come una cagna potrebbe rimangiare i suoi figli, mi sono rimangiata poco per volta il mio amore. Ho sempre avuto la capacità di lasciare strade e contrade amate, e persone — e andarsene, come la cosa più affascinante che la vita consenta.

Nel 1885, liquidato il marito e la compagnia del vecchio Rossi, avevo messo in piedi una compagnia mia. Diventai capocomica. Diventai “il Nume Duse”, la “Principessa invisibile” pronta a dettare nuove leggi al teatro italiano…

Non le interessa l’organizzazione del teatro italiano? Perché mi chiede di parlare ancora di d’Annunzio? Ma sì, ma certo: lo so che il Comandante proprio adesso sta conquistando Fiume per restituire il territorio irredento alla Nazione — lui è sempre un vulcano, uno spirito posseduto — però io non mi sono mai occupata di politicaho creduto per un po’, come tutti, che la guerra fosse una necessità, un dovere, per qualcosa di più grande, ma poi ho visto, ho visto orrore e stupidità, e oggi non vorrei altro che dimenticarmenee sì, è vero, con d’Annunzio non ci siamo incontrati qui a Venezia per un pelo, io arrivavo e lui era già partito per Fiume. Sì, sono preoccupata per lui, ma non c’è niente di strano in questo, siamo sempre rimasti in contatto da lontano, come due persone civili che rispettano l’altro e ne ammirano l’arte, anche se non ci siamo più visti dopo il 1904, quando la penuria — e la delusione — mi obbligarono a rinunciare a mettere in scena La figlia di Iorio, che poi, diciamocelo, tra le sue opere teatrali è risultata essere la meno peggio. Cosa? Suvvia! Se lo avessi amato tanto quanto crede lui, avrei dovuto morire quando ci separammo, e invece ho potuto vivere. Glielo scrissi a chiare lettere, che ci eravamo uniti per essere divisi, e che non mi parlasse più della sua “sete di vita gioiosa” quando invece bisognava agire e lavorare, e che ero sazia di quelle parole! e che offrire la mia devozione per l’opera sua non mi era più possibile, materialmente possibile, con il fallimento della Francesca alle spalle, debiti da pagare, una nuova compagnia da scritturare, e lui che quando seppe che ero gravemente ammalata andò a offrire la mia parte a Irma Gramatica, sempre quella… Mi comprai un mazzetto di viole e decisi che era la mia ora per essere sola, e capace di esistere per e tra le altre creature. Tanto per mettere i puntini sulle i e farla finita: quello con d’Annunzio sarà stato anche un grande amore intellettuale e carnale e romantico, ma per me non era stato il primo — Arrigo Boito e Giuseppe Giacosa li vogliamo buttare via? — e non è stato l’ultimo, per fortuna. Anche donne, sì, certo: perché no? Giulietta Gordigiani, Laura Orvieto… Lina Poletti? sì, povera Cordula piccinina, non un granché come scrittrice e tanto petulante, ma volevamo fare insieme un Teatro del Popolo… Isadora? No, no, con Isadora Duncan avevamo molti punti in comune — suo marito Gordon Craig, per esempio, scenografo straordinario che ha lavorato anche con me, bizzosissimo! — e ci volevamo un gran bene ma come grandi amiche — perché io di amiche vere ne ho sempre avute tante, sa? Era amico della mia amica Matilde Serao quel vigliacco di un giornalista napoletano che mi abbandonò innamorata e incinta a ventidue anni, Martino Cafiero, bisogna pur contare anche lui — magari esagerai un pochino nella vendetta, mandandogli una foto di me schiantata dal dolore con il neonato morto sulle ginocchia, ma ero giovane e ancora abituata a una teatralità guitta anche nel giusto sdegno. Oggi sarei più sottile, più crudele.

E comunque non capisco come mai sto raccontando tutto questo a una giovanotta tedesca che probabilmente non è quello che dice di essere… Oddio oddio, non sarà davvero una giornalista anche lei, sotto mentite spoglie?! Désirée!! Maria!! Nina!! Sarebbe veramente imperdonabile da parte sua avermi ingannata così! Maria! Désirée! Nina! dove si sono cacciate tutte quante? che senso ha che me le porti dietro dappertutto se quando serve aiuto non c’è nessuno?! — Ipnotismo! no, impossibile: non si può ipnotizzare qualcuno standogli alle spalle. O sì?

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Benedetta ragazza, e adesso cosa fa, mi si butta in ginocchio? Alzi la testa. Mi faccia vedere quelle lacrime. Se sta recitando, recita non malaccio. E ha degli zigomi meravigliosi, lo sa? Con degli zigomi come i suoi si possono ottenere chiaroscuri emotivi interessanti. Ma non balbetti così: la voce bisogna portarla sempre come una freccia penetrante, un raggio. Anche quando si esprime confusione e sgomento, mai farfugliare, questa è la regola prima. Ecco. Faccia un bel respiro. Sì, così, dalla pancia, non dal diaframma: vedo che è esperta. E adesso mi racconti la verità. No, ferma lì. In ginocchio va benissimo.

Désirée, finalmente. Dove ti eri cacciata? Per favore, di’ a Nina di preparare un tè per me e una camomilla per la signorina Dietrich, grazie.

Una cantante che vuol fare l’attrice. Perché non mi sento sorpresa? Era come se in fondo, molto in fondo, lo sapessi fin dall’inizio ma ti volessi credere… Vedi, mi è uscito di darti del tu. Te lo meriti. Marie Magdalene… Marie Magdalene è troppo solenne, va cambiato, asciugato. Marlene: tutta questa tua messinscena della studentessa psicocosa, solo per rubarmi qualche segretuccio, che spreco di talento! Sei una sciocca. E se speravi in una raccomandazione per il cinema, sei una sciocca due volte. Con i film ho chiuso. Se dovessi tornare a recitare, tornerei al palcoscenico — la divina avventura di andare per il mondo, come feci, ancora m’attira. Tutte le pene sono niente! Pur di non essere morta prima di morire — E quindi tra cinque minuti ti metterò alla porta e addio. Ma un consiglio voglio dartelo: non fare troppi calcoli sull’amore e sull’arte, non rinunciare a questa per quello se non le è necessario, ma non essere avara di te, non risparmiarti mai. La vita è fatta per essere dispersa, come cenere al vento.

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Nota dell’autrice

Delle circa seimila parole che avete letto, quasi mille sono parole di Eleonora Duse: a volte citate tra virgolette o in corsivo, a volte mescolate nel racconto. L’attrice ritornò alle scene nel 1921 e morì in tournée, a Pittsburgh, il 21 aprile 1924. Il film Cenere del 1916, unica testimonianza visiva che ci rimane della sua grandezza teatrale, è stato restaurato nel 2008 dalla Cineteca Italiana.

©Carmen Covito

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