Cani e padroni di cani [2] di Sandra Giammarruto

© Sandra Giammarruto

La vu-vu-vuoi ascoltare una storia?
La prima volta che ho fatto un viaggio in macchina avevo dieci anni. E-e-e-era estate.
In paese si era spa-spa-sparsa la notizia di una statua della Madonna che piangeva lacrime di sangue. Mia nonna, mia madre e le zie decisero di andare. Lo zio Gino passò a prenderci a casa con la sua nuova Fiat 500. Bella, davvero bella. Era ro-ro-rossa fiammante.
Per tutto il viaggio non staccai gli occhi dalla strada. Se-se-sentivo il profumo delle erbe selvatiche. Ricordo le strade polverose. I campi piatti e ingia-ingialliti, i fiori bruciati dal sole, i fichi d’India, le lucertole negli interstizi dei muretti a secco.
Io ero seduto sulle cosce di zia Jolanda. Le donne agitavano ve-ve-ventagli di carta.
Mio zio era un tipo taciturno. Mia nonna si esprimeva sottovoce e a mo-mo-mo- monosillabi. Le zie parlavano a precipizio. Mia madre o rideva o gridava. Io non ero capace di esprimermi in mo-mo-modo chiaro. Qualche volta balbettavo e biascicavo parole. Mi succede ancora adesso, ma di meno. Spesso mi prendevano in giro per questo. Sta-sta-stai tranquillo, diceva mia madre, la lingua non ha mai ammazzato nessuno. Altre volte mi capitava che avevo il respiro pesante, una tosse forte e non riuscivo a re-re-re-spirare. Avevo l’asma.
Quando arrivammo a destinazione, mi guardai intorno. Non c’era un albero. Solo case bianche e assolate. Cercai il no-no-nome della via. Lo volevo memorizzare. Oggi i nomi sono tutti diversi. Co-co-comunque, in quella strada di cui non ricordo il nome, c’era una casa vecchia e stonacata. Uomini col berretto e donne vestite di nero entravano e uscivano. La mamma aveva le braccia cariche di pacchi. Mi disse di aspettare fu-fu-fuori e di non allontanarmi. Feci come mi era stato detto. Per tutta l’ora successiva, la mia testa fu un turbinio di pensieri fa-fa-fantastici imb-imb-imbastiti sotto un caldo impietoso.
Quando mi dissero di entrare, ero fradicio di sudore dalla testa ai piedi. La stanza aveva la volta a stella. Un camino in pietra. Qualcuno camminava lungo il corridoio portando qualcosa. Forse un cesto. Donne pregavano con il ro-ro-rosario in mano. Vecchi appoggiati al bastone mi sorridevano. Io mi sentivo cedere le gambe. Mi avvicinai al simulacro della Madonna. O, quanto meno, ci-ci-ci provai. Ero senza fiato. Sarà stato per il caldo, l’afa, l’emozione o lo spavento. Sarà stata per la poca fede. Per quel profumo pungente di fiori. Mi si fermò il cuore nel petto. Le lacrime di sangue che rigavano il volto della Madonna, non le-le-le-le vidi. Caddi in terra come mo-mo-morto.
Mesi dopo, durante un attacco d’asma, mia madre, con il viso acceso d’un rosso fiamma, disse che se ero come ero alla fine non era co-co-colpa mia. E nemmeno co-co-colpa sua, che lei il miracolo alla Madonna lo aveva chiesto.
Ti è pia-pia-piaciuta la storia? Mi piacerebbe poterle raccontare a mio nipote. Invece le racconto a te, che non puoi ne-ne-nemmeno parlare. Vecchio e rinco-rinco-rincoglionito più di me. Ridi, eh?
Mia figlia mi ha scritto una lettera. Un mese fa. Sono co-co-contento. Mattia è un bambino intelligentissimo. Estremamente sensibile. Un po’ imp-imp-impressionabile. Per questo non lo porta. E poi, lavora tutti i giorni. La domenica è talmente stanca che fa-fa-fa una gran fatica ad alzarsi dal letto. Non è co-co-colpa sua. È la vita. Queste cose mi tolgono il re-re-respiro. No, no. Tran-tran- tranquillo. Non sto piangendo. Sto bene. Non è colpa sua.

© Sandra Giammarruto

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