Cani e padroni di cani [19] di Sandra Giammarruto

© foto di Gaia De Luca

 1942

È inverno. Lucia è immobile con il corpo teso e i piedi incollati al suolo allineati dentro una mattonella beige, al centro del bagno. Sente il cuore pulsarle nelle orecchie. Cerca di mettere a fuoco la stanza, il lavandino, lo specchio. Si porta alle labbra il bicchiere con il tranquillante. Chiude gli occhi e ingoia. Bussano alla porta. Due, tre colpi veloci.
– Nonna?
– Tesoro…
– Mi racconti una favola?
– Amore torna a letto, la nonna arriva subito.
Lucia ha la voce che trema. Sente la nipote allontanarsi a piedi nudi. È tutto a posto, si ripete.
Per anni hai cercato di dimenticare, seppellire è un’arte che hai affinato nel tempo. Amica mia, la mente inganna, il corpo no.
La voce è tornata. Lucia strattona la spalla. Si guarda intorno preoccupata.
Di te non rimane che un involucro sottile. Stai per cedere. Prima o poi, tutti sapranno.
– Cosa vuoi da me?
Ci sono storie che non vanno raccontate. Quello che è successo nel 1942, per esempio.
– Lasciami in pace!
Il passato non muore. Prima o poi risale a galla come il corpo di un uomo affogato.
Un freddo tagliente arriva fin dentro le ossa di Lucia. Beve dalla bottiglia di gin. Le gira la testa, la bocca e la gola le bruciano.
– Vai via!
Smettila di far finta che non sia successo niente.
Lucia prega con la voce che si abbassa e si alza e si tiene la faccia tra le mani.
Maria!Maria!Maria!
Quelle urla sono assordanti nella sua testa. Si porta le mani sulle orecchie. – Shhh! – implora, ma il suono delle sirene non cessa. Gli aerei da combattimento iniziano la ricognizione sotto un cielo nero pesto.
– Ti prego – dice. – Io non…
Avevi promesso!
La bambina piange, mentre un soldato l’afferra per un braccio e la porta via. Lucia giovane e magra cade esausta sulle ginocchia sul pavimento della cucina. Scuote la testa e con le mani strette a pugno colpisce il pavimento.
Certi ricordi non ci abbandonano mai.
Lucia si afferra le braccia e alza uno sguardo freddo e distante. – Ho avuto paura – bisbiglia. Una porta si chiude, i passi si allontanano, le urla anche. Sul ciglio di una strada larga e nera, dove si accatastano le macerie, uomini e donne guardano in silenzio: più lontano due bambini si rincorrono, ma la maggior parte della gente è in piedi sotto un freddo violento e lì fissa il vuoto come fosse l’unica cosa ormai rimasta, oltre una scarpa da bambina.
È la scarpa di Maria.
Sì – dice Lucia con le labbra tremanti di lacrime trattenute. Esce barcollando dal bagno con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Entra nella camera della nipote. Si siede ai suoi piedi.
– Nonna, mi racconti una storia?
– Sì.
– Inizi con c’era una volta?
– C’era una volta nel 1942 una bambina della tua stessa età che si chiamava Maria. Era figlia di Carmelo e di Enza. Il padre morì per via della guerra. Ucciso da una granata, lui e il fratello.
– Poverina Maria. Mio padre è fortissimo.
– Di giorno Enza rastrellava il fieno in varie famiglie in cambio di uomini che le falciassero l’erba, la sera s’infuriava e di notte piangeva in silenzio. Un giorno a lei e ad altre donne sequestrarono il granturco mentre erano in fila davanti al forno del paese.
– Perché?
– Per evitare le macinazioni clandestine. Le donne erano arrabbiate, esasperate… Era una giornata fredda con il sole perso chissà dove, ridotto a brandelli dalle bombe. Enza e le altre iniziarono a camminare… Tranne una.
– Chi nonna?
– La migliore amica di Enza, lei scelse di ritornare a casa.
– E dove andarono quelle signore?
– Assalirono il comune e la caserma dei carabinieri. Distrussero con il fuoco i registri, i documenti, i mobili al grido di “Vogliamo il pane! Vogliamo i nostri mariti! Basta guerra!”. I militari spararono e ferirono qualcuno. Il coraggio di quelle donne scatenò la furia dei soldati.
– E poi?
– Rastrellarono l’intero paese, casa per casa. Enza capì che presto sarebbero arrivati da lei e chiese alla sua amica di nasconderle la figlia. L’amica giurò che avrebbe protetto la bambina a costo della sua stessa vita. La mattina dopo, un soldato entrò in casa di Enza senza bussare e la trascinò via a ginocchia a terra.
– E Maria?
– Una sera di luna piena l’amica di Enza si levò le scarpe e uscì in giardino. Aveva gli occhi impauriti, ma attenti. Aspettò immobile, rannicchiata accanto alla scala, nascosta tra le ombre lunghe degli alberi. Un gradino dopo l’altro si ritrovò sul terrazzo. Strisciando lungo il perimetro del muro, un palmo alla volta, arrivò nell’angolo più lontano, verso la pietra forata.
– Cosa c’era dentro?
– Una busta con del grasso di maiale. Con quello avrebbe preparato il sapone.
– Come quello che fai tu, nonna.
– Ma d’un tratto la donna sentì il silenzio addosso e il buio le fece paura. Un farò illuminò il centro del terrazzo e lei si fece indietro, si schiacciò nell’angolo. Sono arrivati, pensò. Poi, la luce scomparve. Le faceva male la mano, abbassò lo sguardo, aveva attorcigliato la busta nel pugno serrato. Corse in casa. Sciolse il grasso di maiale sul fuoco. Lavorò in cucina a luci spente, il cielo regalava una parvenza di luminosità. Mescolò la soda con il grasso per più di un’ora. Alla fine, versò il liquido in un cassetto di legno foderato. Lo avvolse in una coperta prima di nasconderlo in un vecchio baule. Presto avrebbe scambiato il sapone con delle calze, dei guanti o una sciarpa per Maria.                                                                                                                                              Lucia racconta con gli occhi umidi di lacrime.
– Nonna, perché piangi?
– Alle prime luci dell’alba, un soldato spalancò la porta di casa e avanzò verso di me. Continuò a camminarmi intorno in silenzio. Io avevo il respiro pesante.
– Nonna è andata via la luce!
– Da lontano si sentivano delle fucilate. Mi poggiò una mano sul petto annuendo. Nessun uomo mi aveva toccato prima.
– Nonna non mi piace questa storia.
– Incespicai e caddi a terra. Rimasi per tutto il tempo immobile con una mano sul petto. Ricordo il filo di saliva che colava dall’angola della sua bocca quando si rialzò in piedi. Andò in camera da letto e afferrò Maria per un braccio. Lo implorai di non portarla via. Mi spinse, finii ancora una volta per terra, distesa faccia avanti. Ti teniamo d’occhio, disse.
Lucia si copre la bocca con la mano, chiude gli occhi e poi li riapre, sono gonfi di lacrime. Il bagliore di un fulmine le permette di vedere la nipote nascosta sotto le coperte.
– Tuo padre è figlio di quel soldato e tuo nonno non è morto da eroe. La nonna vi ha raccontato tante bugie tesoro mio.
Lucia ritorna in bagno camminando alla cieca. Fuori il cielo rimbomba. Un cane abbaia senza tregua. In casa il silenzio è totale. Si spoglia. Afferra il sapone. Con la mano contratta dalla stanchezza  strofina forte sul viso, sul collo, sulle mani. Le rughe sono le custodi dei giorni, delle ferite, dei silenzi. La vecchiaia trascina con se l’eco di un ingranaggio arrugginito che muove lento i fili della coscienza contrariamente a ciò che si sarebbe aspettata.

© Sandra Giammarruto

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1 commento

  1. Brava. Toglie il respiro.

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