Cani e padroni di cani [16] di Sandra Giammarruto

lugano-addio
 

Addii

Luca è seduto sotto la veranda. Ha gli occhi socchiusi. Indossa un berretto verde e una camicia troppo grande. Sul taschino ha una spilla dorata. La testa gli penzola a destra, oltre lo schienale. Manca poco all’ora delle visite. È mercoledì e lui aspetta con ansia Franco che puntuale spunta nel vialetto camminando curvo, le mani affondate nelle tasche vuote di una felpa sbiadita e la barba tagliata con una vecchia lametta. Ciao, dice e Luca gli sorride mostrando i suoi piccoli denti gialli. Franco si accende una sigaretta e, senza farsi vedere dall’infermiera, avvicina la mano alla bocca del ragazzo. Solo un paio di tiri, dice. Poi, si siede sui gradini a gambe larghe. Fissa la strada. All’epoca avevi solo sette anni, dice, senza avere idea di come andrà avanti. A Luca intanto gli diventano le guance rosse. Ha la testa girata leggermente a destra e guarda di traverso nella direzione del suo amico. Dopo il lavoro, rientravo a casa, la sera era il momento peggiore, dice e si passa una mano sul collo. Parla lentamente, scandendo le parole. Cenavo e mi sentivo la disperazione addosso. Mi trascinavo in salotto e cercavo sollievo in una fotografia. Mi addormentavo sul divano e la notte mi svegliavo di soprassalto. Mi sentivo come sigillato dentro un vasetto di vetro, ma non è questo che ti voglio raccontare, dice. Franco aspetta un attimo prima di riprendere a parlare. Si inumidisce le labbra. Una sera, invece di rientrare a casa, sono salito su un autobus, il primo che partiva, dice. Si ferma ancora. La porta alle loro spalle si apre. Un’infermiera esce dall’istituto e richiude la porta sbattendola. È pomeriggio avanzato e loro due sono le uniche persone rimaste fuori, uno accanto all’altro. Ho iniziato a prendere l’autobus tutte le sere. Giravo la città in preda a una rabbia impotente che non sapevo dirigere. Arrivavo fino a qui. L’aria che senti adesso non è quella di allora. In questo quartiere gli uomini puzzavano di marcio. In giro vedevi solo carcasse di animali, radici fuori dai terreni, ammassi di ferraglia arrugginita. Dopo un altro intervallo che a Luca pare lunghissimo, Franco si accende un’altra sigaretta. Qui, ci vivevano quelli che avevano rapinato il mio negozio e violentato mia moglie, spiega. Luca ha un colpo di tosse improvviso. Miriam non si è mai più ripresa e, alla fine, dopo due anni, sì è suicidata. L’uomo parla, fuma e fissa il vuoto che ha davanti. Finché una notte, saltai giù dall’autobus, dice. Decisi che mi sarei vendicato, aggiunge. Un filo di bava cola fin sotto il mento di Luca. Mi sono infilato in una strada buia e ho aspettato che quei due bastardi uscissero dal bar. Quasi mezzanotte, e le strade erano deserte. Sapevo che stavano per svoltare l’angolo. E, invece, sei arrivato tu. Non hai avuto nemmeno il tempo di gridare, dice. Luca immobile, ricurvo sulle spalle, abbassa lo sguardo sulle sue mani. I suoi occhi tornano al punto di partenza. Si socchiudono. Intanto, due donne accanto a loro scendono i gradini. Sono le sette del pomeriggio. Il sole si sta ritirando dal piazzale di cemento antistante l’ingresso dell’istituto di cura. Sono trascorsi dieci anni e, siccome sto per partire, sono venuto a dirti che non sono un tuo amico, sono solo quello che ti ha inchiodato per il resto della vita su una sedia a rotelle. Luca ha la bocca semiaperta. La pelle gli prude ma non può grattarsi. In questo genere di cose, continua Franco, non si ha il tempo per pensare, né per tornare indietro. Mi dispiace. Luca sta per sentirsi male. Franco si allontana. Luca geme una volta sola prima di crollare a testa in avanti.

©Sandra Giammarruto

 
 

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