Cani e padroni di cani [10] di Sandra Giammarruto

La grande quercia

In cucina l’aria profumava del pane cotto al mattino. Lucia scrostava le pentole dagli avanzi rappresi. Agata era seduta a penzoloni sul tavolo.
«Nonna?»
«Che c’è?»
«Tu e il nonno vi volete bene?»
Lucia sorrise. Strofinava la retina di metallo sul fondo della pentola.
«Nonna?» la richiamò Agata.
«Che domande» rispose Lucia, disorientata.
«Vi volete ancora bene come quando vi siete sposati?»
Lucia tirò via il tappo dal lavandino.
«Allora?»
«Santo cielo Agata, certo che ce ne vogliamo, ce ne vorremo per sempre.»
«Per sempre», sussurrò Agata. «Nonna?»
«Che c’è ancora?»
«E vuoi ancora bene alla mamma?»
L’anziana si voltò verso la nipote, con tutto il peso del corpo inciso dal tempo, con le rughe del volto che tracciavano la memoria, con la schiena piegata dalla vita, con il respiro fermo in gola.
Don… Don… Don…
«Nonna»
«Ssssssst!» disse Lucia, premendo il dito sulle labbra.
Don… Don… Don...
I colpi erano forti, con l’eco. Distanti l’uno dall’altro a far passare la morte.
«Donna Teresa se n’è andata» Lucia alzò la mano e fece il segno della croce.
«Nonna?»
«Ritira le lenzuola» disse Lucia, con tono lieve e pacato.
Agata rimase immobile.
«Hai sentito? Sta per piovere.»
Agata capì che quelle parole le dovevano bastare.
Il giorno dopo, lungo via Trieste, le porte delle case erano chiuse. Le saracinesche abbassate. Le radio e le televisioni spente.
Agata avanzò nella cucina con indosso un paio di sandali bianchi e blu.
«Guarda nonna, le scarpe che mi ha spedito la mamma» disse, attraversando la cucina. «Adesso mi stanno grandi solo di mezzo dito.»
Lucia la osservò con una breve occhiata. Tacque. Buttò una manciata di sale grosso in una pentola, come a voler fare un incantesimo.
«Quando la mamma verrà… »
«Tua madre se n’è andata» la voce di Lucia si levò dura.
«Tornerà a prendermi.»
«Se n’è scappata di notte, come una ladra» rispose Lucia.
Agata sentì una fitta stringerle il ventre in una morsa. Uscì in giardino cercando di sfuggire alle lacrime. Rimase in silenzio a osservare le vespe sui fichi messi a seccare. Erano le due del pomeriggio.
«Agata!» Urlò Lucia, con un piede fuori dalla porta. «Dove stai andando?»
Agata attraversò il giardino a passi rapidi, sbattendosi il cancello alle spalle. Iniziò a correre, prima sull’asfalto bucato delle vie dietro casa e poi sui percorsi stretti, di pietre e terra bianca delle strade di campagna. Le pietre si infilavano nei sandali; graffiavano, pungevano, tagliavano la carne e le scarpe. Corse fino alla grande quercia. Lanciò un sasso contro la corteccia, mentre la pioggia le rigava il volto. Abbracciò l’albero. «Mamma» disse.
Rimase lì, fino a quando le nuvole non si spostarono più a nord e l’aria divenne fresca.
Fradicia svoltò l’angolo di via Trieste. Riversata in strada, una gran folla.
Agata si fece largo tra la gente. Qualcuno le toccò la spalla. Proseguì a testa bassa, premendo con la mano sull’addome. Poi, dal mucchio si aprì un varco e Agata alzò la testa. In mezzo alla strada, alta più di lei, una corona di crisantemi colorati, con un nastro viola. Una scritta dorata: Teresa Manzi 1906-1990
Agata si guardò attorno. Sua nonna era immobile sullo stipite della porta, con le braccia distese lungo i fianchi e gli occhi gonfi. Si fissarono.
A parte quel vociare composto proveniente dalla strada, quella sera, dentro casa, regnò un perfetto silenzio. Entrambe tennero per sé ciò che avrebbero voluto dire.

 © Sandra Giammarruto

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