Cani e padroni di cani [1] di Sandra Giammarruto

© Sandra Giammarruto

La porta si apre, e una giovane donna entra nella stanza. È avvolta in un soprabito blu. Ha occhi nascosti dietro grandi lenti nere, a goccia. La ventiquattrore che tiene stretta nella mano sinistra ha l’aria di pesare.
Siamo in dieci dentro l’ ufficio informazioni della stazione, largo non più di due metri. L’aria è impregnata dalla puzza di sudore acido, camuffata dal profumo di caffè che ho tra le mani. Una scrivania ci separa da due uomini in divisa blu.
La giovane donna rompe il silenzio e inizia a protestare.
«Signorina, lo sappiamo che siete stanchi.» Le risponde l’ impiegato, mentre guarda l’orologio appeso al muro, come se dovesse rivelargli qualcosa riguardo quello che sta per accadere.
«Lei non capisce niente!» Attacca la donna.
L’uomo si strofina la guancia ben rasata.
«Ma lei si rende conto che quello che è successo non è dipeso da noi?»
«Di quello che è successo non me frega un cazzo!»
La donna urla, insulta e si avvicina, passo dopo passo, all’uomo. Ribadisce che qualcuno pagherà per quello che ha subito, per i problemi che avrà sul lavoro e per i tanti altri casini che nessuno può minimamente immaginare. L’uomo, che avrà trent’anni più di lei, fa un passo indietro.
«Devo prendere un volo entro questa sera, ha capito? Non me ne frega niente di quello che pensa lei, io devo salire su un cazzo di volo, è chiaro? Devo essere a Milano entro questa sera! Merda!»
Mi affaccio. La porta si richiude alle mie spalle. Rabbrividisco nonostante il cappotto.
La fermata degli autobus è deserta. Un uomo, con i capelli grigi e una sciarpa nera, è in piedi accanto alla sua bici e sta imbucando una cartolina. In fretta, e senza pensarci, cerco nella borsa la lettera che non ho spedito. La infilo nella bocca di metallo. La lascio andare. Tiro un sospiro fra i denti.
Solo dieci ore prima, stavo guardando fuori dal finestrino e mi stavo facendo domande sugli occhi e sulle bocche spalancate degli ulivi. Poi, il treno si è fermato in aperta campagna. La frenata è stata dolce, di quelle che appena te ne accorgi. Dall’altoparlante non è arrivato nessun annuncio.
Ho continuato a leggere. La lettera di addio che avevo scritto con tanta sicurezza, ma che non avevo avuto il coraggio di spedire, era rimasta tra le pagine del libro.
I volti, il chiacchiericcio continuo, i telefonini, le porte che si aprivano e chiudevano, i passi veloci, lenti, le mani che toccavano, sfioravano. L’attesa.
«Abbiamo investito qualcuno.»
Le voci rimbalzavano da vagone in vagone.
«Una donna!»
«Un’anziana!»
«L’hanno vista mentre si buttava sotto il treno.»
Mi sono affacciata dal finestrino e ho visto un fazzoletto nero. Per terra, accanto al muretto a secco, tra gli alberi di ulivo, nella terra arsa e rossa.

© Sandra Giammarruto

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