Il bisogno e l’aritmetica

© Barriere, foto di Katia Colica

Il bisogno e l’aritmetica

La mano sinistra stringe il carrello facendo pressione sul sottile cerchietto d’oro che ancora lo lega alla moglie, un anellino antico quasi saldato al dito. Dice che le donne non dovrebbero mai morire prima dei mariti perché gli uomini, in fondo, dentro questa vita sanno cavarsela e basta; che poi a ben guardare vita non è. Vita non è più da quando è morta Lena, otto mesi fa.

Cammina con un passo incerto dentro il supermercato alla maniera di un fanciullo abbandonato nel bosco, si guarda attorno cauto come se da dietro i reparti potesse sbucare qualcosa a spaventarlo, minacciarlo, o ancora peggio.

Fa i conti aiutandosi con le dita, come i bambini; dentro il carrello ci stanno mezzo chilo di pastina puntine, una bottiglia d’olio d’oliva, due cartoni di latte da un litro e i biscotti secchi per la zuppa, confezione risparmio. Gli piacerebbe il Tavernello ma dicembre è pieno di spese. Certo: la tredicesima della pensione arrivare arriva, ma se ne vola via per pagare gli arretrati del canone per la casa popolare; e poi spartita tra i nipoti che giungono a frotte per gli auguri di Natale: venti euro ognuno, venti euro e un bacio. Poi chi li vede più, quelli vanno di fretta ché la vita fugge a quell’età. I vecchi, mi confida a bassa voce, invece il tempo lo vedono passare all’incontrario, scorre solo nel passato, al presente non passa mai.

Lena glielo diceva già dieci anni prima ma lui non le credeva, la prendeva in giro, ma lei ne ha sempre capito di più su tutto quanto: sul tempo, sui parenti e pure sui prezzi della spesa. E con questi, specialmente, lui non riesce a capacitarsi: come faranno mai a succhiargli tutta la pensione già da metà del mese? E sì che mangia poco, nemmeno la frutta si compra più.

Adesso si mette in fila, il carrello vuoto vira pesante verso destra, lui fa fatica a rimetterlo in linea. Nella mano ha già pronti dieci euro piegati in due, nonostante manchi tanto al suo turno. Vuole che gli passi avanti, mi cede il posto, ma io non ho fretta, gli dico. Insiste lui e insisto io.

– Se non ha prèscia le racconto ancora un’altra cosa: ma è una cosa che non ho capito, quindi è una storia senza la fine. Va bene?

– Sì, va bene uguale anche senza la fine.

– Allora: tanto tempo fa io l’olio non lo compravo perché mia nonna aveva la terra con gli ulivi, le arance. Pure l’uva c’era. Non era una gran terra ma bastava per tutti. Ed eravamo tanti. Alle stagioni si andava a lavorarla e, chi più chi meno, dopo il lavoro si portava a casa le scorte. E la buonanima di mia nonna faceva così: chi aveva più bisogno, o più figli, o più fame prendeva di più; chi già aveva già qualcosa lasciava per gli altri e prendeva di meno. Ma poi che ne so, le cose sono cambiate. Hanno cominciato a pesare tutto, hanno spartito il raccolto sulle carte, sono arrivati a fare i conti con le macchinette. Qualcuno ha pure messo l’avvocato perché con quei soldi della terra ci voleva mandare i figli all’università. Mia mamma non ha avuto la voglia di litigare. Di dire ai fratelli che è il bisogno a venire prima e non l’aritmetica; e che ai figli ci pensa il tempo e la vita. Ora la terra è tutta secca e recintata col filo di ferro, non ci vado da trentacinque anni. Quest’olio fa schifo, costa tre euro e settantanove. Con l’offerta. Glielo avevo detto che era una storia senza una fine.

– È un bene che non ci sia una fine, invece – gli rispondo. – Anzi: farò in modo che non finisca mai, o almeno che duri il più possibile: la facciamo durare finché si può. Qualcosa mi invento.

Va bene, mi dice. Va bene. Ma passi avanti a me alla cassa.

© Katia Colica

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