La favola del castello

sangue ragni

LA FAVOLA DEL CASTELLO

Ci sono segreti da nascondere sottoterra; ne abbiamo paura, spesso, per via del sangue che zampilla dalla chiave di quella solita stanza in cui non ci è stato permesso mai di entrare. Per via di quel sangue che cerchiamo di asciugare con l’orlo della gonna e che rivela le nostre debolezze. Identiche a se stesse. È entrata Lulù e mi ha vista mentre suo padre con la mano destra mi spingeva il mento verso l’alto, come se volesse staccarmi via la testa. Lui si è voltato solo un attimo, senza badarle, senza mollarmi. L’ha guardata con lo stesso fastidio di uno che vede entrare un moscone in camera da letto.
Ha continuato il suo lavoro come se fosse un operaio con la sua pressa, trascurando completamente il fatto che lei si sistemasse lì a guardare, accucciata ai piedi della porta dentro la sua felpa rosa ad abbracciarsi le gambe appena scoperte dalla minuscola gonna plissé.
Io non vivo un dramma, vivo quello che ho scelto. Con lui ho sposato i sogni che mi ha raccontato, ci ho convissuto pacificamente per abbastanza tempo restando dietro la porta che divideva il presepe che lui mi dava da abitare dal resto del mondo che avrei potuto avere. Poi è andata che un giorno ho trovato la chiave per aprirla quella porta, così, per caso e senza farci troppa attenzione; come può capitare di raccogliere una moneta che trovi sul marciapiede in un giorno né migliore né peggiore degli altri. L’ho trovata, apriva la stanza degli orrori; e lì ho capito che, spesso, se il trucco riesce quello bravo è il coniglio e non il prestigiatore.
Io, fino ad allora, ci riuscivo a stare dentro quella vita, a muovermi senza offenderlo, a parlare con ordine, a sorridere nel modo giusto, al momento giusto. A seguirlo mentre mi trascinava con sé ovunque come se mi considerasse davvero sua. E intanto lo ero.
Oggi so che quello che mi aveva lasciato prendere era ciò che non avrei mai osato chiedere. La sua offerta era semplificata dal mio imbarazzo. E quello che io ritenevo nostro era proporzionale alla mia forza di crederlo e alle sue parole che lo ripetevano. Ero diventata il mestiere che mi ero scelta.
Deve essere colpa della Veronica. Del lino che ha portato nel suo passeggero cammino accanto a Dio. Deve essere colpa di Cassandra e Dafne quando hanno chiesto alla passione di disegnare le loro storie e farne un destino. Deve essere colpa di Persefone ingoiata dalla terra per raccogliere uno stupido giglio; di sua madre, di tutte le madri del mondo, delle loro occhiate stanche, ottuse. O colpa di Dio, che ci ha fabbricato così capaci di immolarci a ogni uomo stanco di sé.
Io non ho mai visto mio padre piangere; neanche per gli altri, perché lui non perdonava, e per questo non piangeva mai. Lo ricordo adesso come in un flashback guardando Lulù accovacciata a vedermi massacrare, lo ricordo perché anche io mi accovacciavo così, come lei, ad assistere alla rovina della mia vita dentro le botte prese da mia madre. E lo cerco sempre quel macello, in ogni uomo; qualcuno con cui ripetere ogni gesto; ogni massacro. È il mio unico modo di farmi amare, se di amore si tratta. Perché ogni burrone ha un suo incanto e ogni rovina ha una propria poesia.
Quegli occhi della bambina me li porto sempre in braccio come se dovessi loro raccontare com’è ogni volta morire, per poi ogni volta sopravvivere al disastro. Decido ogni volta di ripetere questo mio esclusivo sistema quasi per poter essere voluta. Ancora. E ancora. Non ne conosco uno diverso. Morirei sotto dei baci. Morirei. Così, almeno, so di saper sopravvivere. Senza la paura del dolore o del rituale dell’inferno. Quando mi nascondo dentro i miei angoli aspetto i colpi del persecutore sapendo di poterci morire. E augurandomi ogni volta che non succeda. Perché posso rimanere viva a questa sensazione di annullamento, io, che tanto non saprei morire in maniera differente; io che so solo sopravvivere.
Così la mia creazione della vita ogni volta passa dalle piccole morti che so riconoscere. E non c’è nulla di più suggestivo al mondo che una morte annunciata ogni sera. È una febbre che sai arginare e non curare. Un vestito di lino che rinfresca ma si spiegazza, proprio non puoi farci nulla, si spiegazza. E alla fine lo lisci con le mani, così, per riprendere un po’ di dignità. Con la stessa cura, nascondendo i miei pezzi mancanti, col tempo ho lentamente cominciato a collezionare la saggezza sopra una tela di ragno disegnata sul mio corpo coi lividi. Con le vene, a segnare.
Facendo finta che la mia piccola non ci capisca, in tutta questa storia, che non mi sia accanto. Dimenticando di aver rassettato mille volte la stanza dove lui ha nascosto i cadaveri della mia storia perché la sua barba sembrava molto meno blu.

© Katia Colica, 2018

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