Un mazzo di boccioli

operaio

UN MAZZO DI BOCCIOLI

Il primo giorno al cantiere pensavo al mio primo caffè che mi ero immaginato con un sapore migliore, invece aveva solo il sapore da adulti.
Pensavo alla mia felpa finta Nike che indossavo il sabato pomeriggio per andare a passeggiare e che invece quella mattina avevo messo addosso ché al lavoro fa freddo, dicevano, e avevano ragione. Tanto col primo stipendio ne avrei comprata un’altra, magari originale.
Pensavo alle poesie di Carducci dell’antologia di italiano, l’antologia pesante con ottocento e più pagine dalla copertina bianca col rombo rosso e dentro il rombo un pallino sempre rosso. Dove dentro ci trovavo Ulisse coi porci e Polifemo, Ugolino coi figli divorati e – anche se pochi – i fumetti e persino certe pubblicità spiegate.
La professoressa Antonia Speranza ci diceva sempre che il termine antologia arrivava da anthos (fiore) e da logos (scelta), e che quindi quando la si sfogliava si doveva pensare a una specie di raccolta dei fiori più belli. A un mazzo di boccioli che gli autori ci facevano l’onore di spedirci ogni giorno. A noi faceva ridere quella storia dei fiori però ci si pensava su, ogni volta. A me piaceva sfogliare l’antologia anche dopo i compiti, per andare a leggere quelle parti che non erano nel programma, anche perché a casa nostra non c’erano altri libri.
Poi arrivò quella sera che stavo seduto in cucina con Asimov, i boccioli dei poeti e tutto il resto e mio padre con solo una frase mi spiegò quella che sarebbe stata la mia nuova vita: “Da domani niente scuola, basta perdere tempo”. Così  disse, restando con gli occhi fissi sul televisore. E io avevo capito immediatamente che, in fondo, quello che stava scegliendo per me non è che poi fosse giusto o sbagliato: era l’unica cosa che era in grado di decidere. Chi se ne frega, pensai. In fondo la scuola era una rottura di coglioni coi suoi orari assurdi, i compiti a casa, le frazioni. Chi se ne frega: meglio far soldi, e subito.
Il giorno dopo, il mio futuro arrivò con la sua valigia piena di fatica e con la prima sveglia delle cinque e mezzo del mattino; qualche ora più tardi si confermò distante dalla vita precedente mentre i miei compagni di scuola trottavano fuori in frotte disordinate al suono della campanella e io sul cantiere, poco distante da lì, pisciavo sulle mie mani spaccate a sangue dal ferro e dai mattoni.
Ho costruito palazzi, tribunali, chiese. Ho piegato ferro e modellandolo ne ho fatto lo scheletro robusto abbracciato da muri e travi. Ho aiutato panorami a oscurarsi e diventare altro mentre per solette salivo su; e a terra lasciavo quel ragazzino delle medie a fissare il cielo. Ché tanto il cielo, per quanto da vicino, crescendo non ho nemmeno avuto il tempo per guardarlo più.
Oggi è il mio ultimo giorno di cantiere, la ditta non mi ha rinnovato il contratto. Di quello che ero non è rimasto molto: le ferite dentro le pieghe delle mani si sono cicatrizzate in fretta e si sono trasformate in calli di cuoio duro. Dell’antologia è rimasta la nostalgia infantile che stamattina mi ha regalato questa solitudine. Della mia scrittura inutile, invece, è rimasto giusto lo spazio del mio nome scritto in corsivo quando qualche documento pretende una firma. Per il resto la penna in mano la prendo solo per disegnare minuscoli pallini sulle schedine del superenalotto. E immagino che nemmeno di questi mattoni, nella mia vita a venire, rimarrà più nulla; giusto uno, immaginario, che sento appoggiato all’altezza dello sterno e che mi fa respirare a fatica.
Il tizio che prenderà il mio posto l’ho seguito e spiato per giorni e anche per qualche notte. Questo non mi è servito a granché se non a sapere che dorme al buio accovacciato sulle scale del centro commerciale, coi cartoni sistemati sul gradino più alto sotto il parapetto, per ripararsi dalla pioggia, immagino. È arrivato lunedì scorso e ha chiesto se c’è un posto per uno come lui, uno che sa fare un po’ di tutto. Così ha detto, con un accento inaspettatamente francese: Oui, je suis bon. Poi però gli ho sentito dire altro ancora mentre parlava al padrone con l’acca aspirata, come fanno quelli come lui, lì, al suo Paese. Ché per noi il suo Paese è l’Africa e basta, nord o sud che cosa ce ne potrebbe fregare, in fondo. Disgraziati sono loro e disgraziati siamo noi, dico sempre.
Anche io, troppo tempo fa, avevo detto: sì, lo so fare. “Mai, mai dire non lo so”, mi aveva raccomandato mio padre la mattina del mio primo giorno. E io mi sono fidato, mi era sembrato un ottimo consiglio da dare a qualcuno che deve crescere in fretta.
Poi salii sulla soletta col vecchio Turi e con lui sono rimasto: nove mesi, dieci ore al giorno più pausa a panini e birretta.
Mi insegnò tanto e chissà quanto ancora avrebbe potuto insegnarmi. Parlava dei mondiali di calcio l’ultimo giorno, di come ti fottono i padroni, sempre, anche con lo sport. Guardi una partita e loro ci guadagnano, mi diceva senza guardarmi, con le mani a stringere una pinza e il sudore che colava giù a goccioloni sui ferri da dieci. Non ci lasciano nemmeno in pace la tivù per goderci questi vizi da morti di fame. E asciugava il sudore dalla fronte col braccio Turi, imprecando contro la pay per view che poi voleva dire che ci vendevano quello che prima avevamo visto sempre gratis. Gratis o quasi, mi spiegava Turi, gratis mai, mai! Io pensavo ad altro, avevo quattordici anni e ancora mi distraevo guardavo il cielo.
Deve essere stato per questo, e solo per questo, che me ne accorsi.
Non sembrava nemmeno pesare quell’asse che gli volò in fronte. Io la seguii con lo sguardo arrivare da chissà dove; girava senza suono su se stessa come fosse arrotolata dalle mani del vento. Arrivò con la stessa leggerezza che può avere una rondine quando chiude le ali stringendosele addosso e che, con dei leggeri e impercettibili movimenti del capo, si dà una direzione. Che conosce solo lei.
Potrebbe anche non fare male una scena così.
Poi i suoi capelli impastati col sangue, i suoi occhi a guardare verso su, fissi, immobili.
Domani comincerò a vivere da precario: hai rotto troppo i coglioni in questi anni, mi hanno fatto capire; e infine anche detto. Perché ho reclamato le imbracature, gli elmetti, le scarpe antiscivolo e le mascherine filtranti. Ho iniziato, col tempo, a reclamare la sicurezza, a pretendere almeno di non morirci, qui sopra. Perché morire di lavoro è l’ultimo tiro mancino che può farti la vita, un imbroglio ridicolo e sleale: muori mentre cerchi di campare, insomma.
Così avrebbe detto Turi bestemmiando. Se avesse avuto il tempo di insegnarmelo. Di insegnarmelo in un modo diverso, dico.

© Katia Colica, 2016

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