Non parlare al conducente

Foto di Katia Colica
Foto di Katia Colica

Non parlare al conducente

Questa notte sembra tinta dall’inchiostro che usa l’azienda per timbrare l’orario dei turni: né nero, né blu. Forse è un colore che non esiste. O nessuno gli ha dato un nome o forse, ancora, il nome non lo conosco io perché sono sempre stato scarso a distinguere le sfumature.

Me lo diceva sempre Marta quando mi parlava delle sue scarpe ecru o del pullover bordeaux che avrebbe voluto regalarmi; che mi avrebbe regalato senz’altro se non fosse andata via. Spesso me la immagino tra le braccia di un pittore, di quelli che lavorano con la testa e la fantasia. Uno di quegli studenti ancora assonnati che salgono su questo pullman di mattina presto coi fogli di cartoncino arrotolati e ingombranti, che occupano lo spazio di due passeggeri ma pagano un biglietto soltanto, se lo pagano. Perché loro hanno le tasche e la pancia vuota ma nei loro occhi ci passa il mondo intero, tutto in un soffio, mica come a me, che davanti agli occhi mi ci passa solo il tragitto Piazza Garibaldi-via Tre fontane. E questa storia del mondo davanti agli occhi Marta lo sapeva già quando è andata via. Non sono riuscito a custodirla bene come avrei voluto, Marta. E sì che ci ho provato.

Le fermate sono vuote, io rallento in prossimità e do uno sguardo veloce tanto per non commettere un errore, tanto per non lasciare indietro qualcuno per sbaglio, con questa oscurità. Ma non mi aspetta nessuno, né alle fermate né a casa quando ritornerò dopo il mio turno, e quindi lo scivolare piano del mio tragitto sulle strade è così inutile e muto che sembra una specie di fruscio; come il passaggio di un panno sul piano di un mobile, a spolverare.

Mentre guido sembra che il centro della città si stacchi via coi suoi suoni e le sue luci, invece la periferia diventa un pasticcio confuso; comunque scorrevole. Distinguo i marciapiedi che mi slittano accanto come piattaforme scivolose. Le case, le banchine, i cassonetti si fondono in una forma unica e fluida, come quelle sagome che vengono fuori quando si brucia la cera di una candela.

Forme senza forma, insomma.

La notte mi somiglia, però, per questo insisto sempre col responsabile a farmi fare questo turno. Mi sembra di essere in compagnia, contrariamente al turno di giorno che mi isola con lo strepitio respingente dei passeggeri, della loro calca che non mi riguarda, del loro affanno a conquistare un posto a sedere, della loro ansia nel prenotare la fermata. E della loro paura che io li ignori e vada dritto per portarli in un luogo che non riconoscerebbero come il proprio. Che li metterebbe in crisi, nonostante i quattro passi di lontananza dalla loro meta sicura. Io resto al di qua del pullman, separato da una cordicella: lo spazio vitale difeso dalla ressa, il mio sguardo che si sposta tra parabrezza, specchietti retrovisori, pulsanti apri-porte e leva del cambio.

Invece la notte, dicevo, sembra fatta apposta per stare assieme a me e io ci scivolo dentro insieme a questa solitudine, ma devo farlo senza fretta altrimenti va a finire che mi perdo tutta la vita che mi scorre nelle vicinanze, la vita che sta a un metro da qui sopra, appena scesi i tre scalini e subito dopo le porte elettroniche. E mi dico che non consentirò a me stesso di perdermi nulla di questo spettacolo ché, in fondo, è l’unica cosa che ho.

Come sarebbe bello se tutta quanta la vita somigliasse a questo mio lavoro, con dentro una porta per la discesa e due per la salita, con una transenna a bloccare il transito della gente e ripararmi dentro l’angolo di guida: non parlare al conducente.

Con un percorso stabilito dove nessuno può dire che si deve cambiare e andare di là. Con i turni che scegli di vivere, quelli più comodi, quelli più adatti. Con il colore arancio stampato addosso per distinguersi dagli altri mezzi, per non confondersi e non farsi confondere, così uno che ha scelto di salirci -sopra la tua vita intendo – poi non è che può dire mi sono sbagliato, pensavo fossi un taxi. Pensavo corressi più forte. Pensavo volassi e mi portassi, via, lontano; per dire.

Un po’ come ha fatto Marta che mi ha scambiato per uno che sa cambiare strada, che sa scendere dalle salite, che sa togliere la cordicella che lo separa dalla gente. Che sa dare il nome del colore di questa notte che somiglia a un fluido scuro che mi avvolge e mi accompagna in silenzio. Però, attraversandola, credo che nemmeno la notte sappia il mio di nome, anche se mi somiglia, anche se siamo uguali.

Allora penso che, forse, conoscere un nome non importa poi tanto.

© Katia Colica, 2015

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