Bipede a quattro mani [1] di Raffaele Rutigliano

GIORGIO FABBRI
(a Lucio Dalla)

Bacco, abbacchio e i suoi Bacchianali. Si infilavano in ogni pertuso, si dicevano parole come: “Sono rimasto fedele a Giorgio, ai suoi occhi” o “Chiudi la gola, il seme è più dolce”.
L’esperimento di ritrovarsi nudi all’alba, sotto un sole acerbo. Il rumore delle vibrazioni dall’apparecchio, cullato innanzi a Giorgio.
Tu lo ami?
Chi, lui?
Lo disse sottovoce.
Sono ciò che tu non vedi, sono la scopa, sono il tuo scolo, sono la fogna.
Anche io ti amo.
Giorgio viveva a Bologna, conosceva un notaio, si chiamava Tritone, e sapeva volare.
Giorgio imparò da subito a volare. Quando le colombe venivano cacciate per la nidificazione continua negli androni dei palazzi. Volavano e cadevano, si rialzavano e ricadevano. Giorgio ne raccolse una. La tenne stretta in pugno, sbatteva le ali, la strinse più forte, la soffocò. Ora lo faceva lui, Giorgio: imparò a volare. Volava dall’androne ai palazzi di fronte, si agitava, scuoteva le braccia e le mani, a imitazione delle colombe quando in vita.
Poi scelse il suo posto, quello dei desideri nel cielo, dentro se stesso. Provava di tutto per ogni sempre e dove. Non aveva paure o speranze. Senza brandimenti di terrore con il vago senso di stare con il rumore cullante.
Si aggiunse ai Bacchianali, dopo la dipartita del notaio, lo fece tramite Domenico Sputo, quello del bar sotto casa in via D’Azeglio.
Il rumore divenne litania con un senso di benessere. Eppure con gli altri non si sarebbe visto per parecchio tempo, perché dopo tanto cullare scelse. E glielo disse a voce bassa, posando l’orecchio sul suo petto. Ne percepiva la vita, il battito di fumo e cannella.
Vieni con me?
Precipiteremo per poi volare, insieme.
Giorgio portava nuvole e pioggia.
L’acqua e tempesta venne di lì a poco.
Così, un giorno, mentre attraversavano una strada mano nella mano che il viso gli brillava – i raggi erano diretti sui palazzi e riflessi su di lui –, un grido arrivò poco dopo dall’angolo cieco, Giorgio si girò e la mano era vuota.
Un’auto aveva soffocato la sua colomba bianca.
La cecità della vita prese il sopravvento, ma Giorgio riprese a volare, questa volta solo, dall’androne verso nuovi palazzi, più lontani, che separavano Bologna dal resto del mondo, nel suo perpetuo cullarsi dove l’altro non potesse più morire. Per mescolarsi con l’odore del caffè.

© Raffaele Rutigliano, 2014

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