Amori di merda [8] di Roberta Lepri

COME UN PESCE, MUTA.

Il mare è vita. Rincorro l’onda mentre si arrotola e se fuori il tempo è piovoso, se il libeccio mi annoda i capelli o c’è troppa confusione, mi immergo.

Sotto è pace liquida, nessun contrasto. Sotto, il pensiero è lento. I miei denti aguzzi raschiano le alghe muscose che si formano sugli scogli più in superficie, oppure aprono con un colpo secco il ventre dell’aragosta, dove è meno resistente. Ogni tanto, rare creature mi salutano con un fischio dagli abissi. Adesso vivere qui è difficile. Un tempo, audaci esploratori dicevano di averci conosciute ma dagli altri erano presi per chiacchieroni da taverna. Ho veduto etruschi, fenici, arabi; ho veduto umani vestiti di ferro con la croce sul petto. Poi le navi divennero di metallo pesante, alcune riuscirono a immergersi e a causare sott’acqua rumore e fuoco. Gli uomini furono capaci di imprigionare e portare sul fondo del mare perfino l’aria, che emettevano con milioni di bolle. Quando gli umani affondavano, andavo a curiosare sulle loro rovine. Più di una volta appoggiai per un saluto la mia bocca di pesce sulla loro, aperta in un ultimo grido di orrore. E lo trasformavo in stupore.

La sapienza di quelle che mi hanno preceduto mi ha messa in guardia. Disegni antichi, nelle grotte, narrano storie orribili. Una di noi è stata trasformata in pietra, dicono, e messa a guardia di un porto, al Nord, dove le acque si fanno di gelo. Io sono un tipo prudente. Loro ci considerano animali. Infatti uccidiamo solo per mangiare: niente altro ci muove che non sia istinto. Non abbiamo trofei nelle nostre grotte buie, solo sedili in pietra su cui appoggiare le code stanche e su cui deporre le sacche che contengono le nostre figlie, ogni cento anni, quando la natura ci impone di riprodurci da sole, con il nostro stesso seme.

Conosciamo il piacere del nuoto e la gioia pura del movimento liquido verso cui tendiamo. Siamo animali, è vero. Del polpo abbiamo l’intelligenza curiosa. Del tonno la coda perfetta. E abbiamo il modo di sfuggire i pericoli, di prevederli. Gli umani di noi non sanno niente.

Non è vero che cantiamo. Non è vero che facciamo naufragare le navi e impazzire i marinai. Non abbiamo un cuore: forse per questo i marinai impazziscono. Anche io sono muta, come tutte le altre. Un richiamo da piccola balena mi esce ogni tanto dal petto, ma solo se sono immersa. Loro ci cercano da sempre, anche se di noi non sono certi. Si fanno disegnare sulla pelle la nostra immagine, dicono di averci vedute, toccate. Di averci fatto innamorare, Ma un pesce non può amare.

Un pesce come me può fare molte altre cose. Davvero mi sarebbe piaciuto spiegarlo a quel pescatore, se solo avessi potuto parlare. Lo avrei voluto avvisare, in qualche modo. Ma lui mi guardava in una maniera che non conoscevo. La prima volta lo lasciai andare. Mi pregò di tornare, di imparare ad amarlo. Poi prese coraggio e mi accarezzò. La sua mano che mi toccava era un grido di dolore. Il mio.

Vidi quello che noi, da animali, possiamo vedere: un’altra me tra vetri che la rendevano deforme, davanti agli occhi di tanti umani, grandi e piccoli. Così fiutai l’amo, riconobbi in modo chiarissimo l’inganno.

L’aculeo del trigone che uso per cacciare si conficcò nella sua gola come in una morbida seppia. E’ la nostra arma di difesa, noi che difesa non possiamo avere. Lungo e affilato, della misura giusta per uccidere grandi predatori. Prima di morire, il veleno lo fece sussultare due o tre volte, come accade agli squali.

Gli uomini ci considerano animali. Infatti li uccidiamo solo per mangiarli.

© Roberta Lepri

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