Abiterò me stessa [1] di Nicoletta Erre

foto di Marla Morante
foto di Marla Morante

L’INCIPIT

Abitare se stessi…
Roba da chiodi.
Mi coabito da cinque decenni più un bel tot, e l’altra inquilina: la mia parte odiosa, quella che lancia strali e sparge yogurt sulla gente come fosse manna.
Ho sempre saccheggiato volentieri, nelle frasi e nelle espressioni emerse,  quelli che sono stati i periodi di terapia (a singhiozzo) da uno strizzacervelli.
La terapia, di cui sto scrivendo adesso, iniziata nel 1997 e interrotta  nel 2000, riuscì a traghettarmi con non poche difficoltà verso una separazione che mi rifiutavo di accettare perché c’era di mezzo un bimbo di pochi anni.
Mai stata una bacchettona, ma l’idea che mio figlio dovesse crescere senza la presenza costante del padre, mi provocava dentro un rimescolio mostruoso, derivante da alcune vicende scoperte a causa della mia curiosità di bambina antennuta.
In una serata del maggio 2000, quando nacque  la nipotina più piccola, mi alzai di scatto dalla  poltrona e mi avviai verso la porta. Lo psicoterapeuta con voce severa disse che, se avessi varcato quella soglia, non sarei mai più tornata indietro.
Impulsiva com’ero, varcai una soglia e l’altra. Mi catapultai giù per le scale di quel palazzo ristrutturato  del centro cittadino.
Successivamente, come da crudele copione, ebbi bisogno di lui. Mi fu detto che avevo operato una scelta, e che tornare indietro non sarebbe stato più possibile.
Mi fu proposto uno strizza di riserva, mi rifiutai.
Così mi addentrai da sola, disperata e con un bimbo di quasi sette anni, in un tunnel privo di luce.
Di quegli anni ho ricordi per certi versi chiarissimi  e al contempo molto confusi. Da sola, col supporto morale dei miei, riuscii a passare il guado portando sulle spalle mio figlio.
Quell’esserino dagli occhi smarriti oggi ha ventitré anni.

© Nita Ranaldo, 2016

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