Corteggiamenti [19] di Alessandro Morbidelli

corteggiamento#19
immagine da www.minimaetmoralia.it/wp/orfani-bianchi/

 

Vorrei dedicare questo Corteggiamento a Serena Bertogliatti e al suo progetto, promosso insieme a Davide Schito, di narrativa in seconda persona singolare presente (SPSP) per cui è in allestimento una raccolta di racconti. Se volete partecipare, andate a scoprire di cosa si tratta su: spspfiction.wordpress.com – Avete tempo fino al 31 gennaio!

Madre bianca. Padre nero. Figlio bianco.

La verità è che si danno troppe cose per scontate. Come l’amore, per esempio. Come l’amore per un figlio, e lo dici a bassa voce. Come l’amore per un marito, e lo dici convinto che potresti anche non dirlo, ché tanto non ti ascolta nessuno. Invece lui ti ha ascoltato. Così, adesso, siete in cima al tetto del casolare, quello che il nonno battezzò con un fiasco di vino e una sbornia giù per il fosso, quello che il padre tenne un sermone che sembrava il sindaco, finito il primo piano e metà del secondo, quello che hai coperto tu, con le assi e le tegole, quello che hai coperto tu, con il comignolo e con le gronde, quello che hai coperto tu, con i soldi che lei ti ha mandato dall’Italia. Sì, adesso, appunto, siete in due. Tu e tuo figlio. Tu e vostro figlio. Il maggiore. Quello con lo sguardo da lupo.

Ci sei andato una volta in Italia e non è stato semplice. Non tanto oltrepassare la frontiera, quanto sedersi poi al tavolo di un bar, con tua moglie e la figlia del vecchio, a scegliere un gelato che costasse soltanto quanto un tuo mese di stipendio. Quello è stato difficile quasi quanto dover poi ringraziare il marito della figlia del vecchio, che paga i gelati e tiene sempre la mano sulla spalla a tutti quando parla. A tutti, anche a lei, a tua moglie. È stato difficile trovare l’odore di chi ha assaggiato la vita e se l’è poi nascosta sotto la pelle, o spalmata sulle labbra. Così adesso la senti, trasudare una città che non è sua dalle ascelle, i tasti di un telecomando di TV satellitare dai polpastrelli, il vezzo di un complimento dai fianchi. E no, non riesci a pensare a quel mare più basso, nascosto, di cui non ti disseti da troppo tempo. Ne intuisci il sapore e lo senti lontano. Ne ricordi l’odore come quelli che scoprivi da bambino.
«Promettimi che mamma tornerà a casa…»
«Te lo prometto…»

L’hai cresciuto bene, il tuo figlio con gli occhi da lupo. Gli hai insegnato che a cercare la mamma sono i deboli e che a farla tornare a casa sono sempre i più forti. Che i suoi fratelli piccoli sono deboli, che lui è quello forte. Lupo cucciolo, ma lupo. Fiero e fiera.

«Lo farei io, ma poi chi baderebbe a lei e ai tuoi fratelli, una volta tornata?» gli dici. Ma intanto vedi solo i fianchi e la schiena. Bianchi. Con le lentiggini che sembrano polvere. Che a toccarle troppo diventano rosse. Tutto così lontano da te. E impazzisci. E sei contento. Perché se l’è meritato, un cucciolo di lupo sul tetto. Perché tu ci sarai. E quella puzza di vita le diventerà insopportabile.
«Ho scritto, vuoi leggere?» ti chiede porgendoti un foglio a righe. E tu lo prendi ed è proprio come lo volevi. Ha i bordi taglienti. La frase “Non posso più vivere senza di te, mamma, e nemmeno loro” ti si arpiona al palato.
«Glielo dirai che non è vero, quando sarà tornata, quando avrà deciso di restare?» ti chiede, perché del lupo ha anche l’orgoglio.
«Quando torneremo tutti insieme, le dirò tutto…»
«Allora è il momento…»
«È il momento…»

Nell’istante in cui salta di sotto ricordi tutto. Anche che una volta si scottò con una pentola e per non deluderti se ne rimase zitto, all’ombra, con la pelle che si gonfiava. O che una volta ti chiese se andasse tutto bene perché ti vedeva stanco.
Nell’istante in cui salta ti rendi conto di quanto sia immenso il ritardo per dirgli su, non è niente, passerà, vieni qui che ti ci lascio un bacino, sulla manina, oppure no, non va tutto bene, mi manca tua madre.
Nell’istante in cui salta scopri di non essere un padre lupo, ma un padre nero, e che loro sono così bianchi. Vorresti che tuo padre si affacciasse dal primo piano e lo afferrasse con le sue braccia da orso o che tuo nonno lo attutisse con la sua schiena da mulo. Invece c’è solo il tonfo.
Così scendi di corsa, per il lucernaio, per le scale, esci dal portone sul retro, mentre qualcuno inizia a urlare. Corri in paese passando per il campo. Il giallo del granoturco ti si appiccica alle guance e alle braghe. Puzzi di piscio e di morte. Quando sei vicino alla drogheria prendi la busta che tenevi nel taschino e rileggi il foglio un’ultima volta, prima di metterlo dentro: “Non posso più vivere…”

È davvero così tardi. Per tutto.
«Così mamma tornerà a casa. E ci resterà…» dici mentre “Roma (Italy)” e tutte le parole scritte da tuo figlio scompaiono nella fessura postale.
Poi torni nel campo. E urli.

 
(spunto e immagine da www.minimaetmoralia.it/wp/orfani-bianchi/)
 
© Alessandro Morbidelli, 2015

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