Non so fare la valigia. Viaggiare è una delle cose che amo di più, ma non ho mai imparato cosa portarmi dietro. Se dovessi farla per Elena, non sbaglierei un colpo: il tubino nero, un paio di scarpe spavalde di quelle su cui lei vola, un altro paio – stavolta comode e un po’ sformate – per le lunghe passeggiate, quelle che usa per dimostrarmi, come se ce ne fosse bisogno, di essere la mia migliore amica di sempre. Il suo mantra è: «Facciamo due passi?», un invito che ha mille significati: da alzare il culo dal divano, all’organizzare la prossima festa di compleanno, a un’altra idiozia di cui pentirsi, o a più accurate operazioni a cuore aperto sui sentimenti. Che siano i suoi o i miei non ha importanza, basta che si intervenga, si capisca, si sezioni. La sua valigia è fatta di quello: fascino, cura e disponibilità.
Il bagaglio di Enzo è più impegnativo, lui ha bisogno di vuoto fra le cose, di fare spazio e mettere tempo, per questo non viviamo più insieme, ma continuiamo ad amarci, detestarci e desiderarci come se tutti questi anni avessero dimenticato di consumarci e ridurci ad abitudine. Quando viaggia ha bisogno di un obiettivo, di molta strada da guidare, della musica adeguata ai suoi silenzi. È uno che ti dimentica all’Autogrill, senza il pathos di ‘Pane e tulipani’ e torna a prenderti dicendo: «Scusami, ero soprappensiero», che è il posto da cui fa più fatica a tornare e che lo rende indispensabile ai miei di pensieri.
Se ci fosse ancora, la valigia di mia madre sarebbe la più impegnativa da preparare. Lei era donna del superfluo, del non si sa mai, del tutto troppo. Sono figlia di una cattedrale barocca che ha partorito, non si sa come, un comodino dell’Ikea. Il suo beauty-case da solo era più ingombrante dei miei incerti zainetti.
«Mamma, dodici rossetti per un fine settimana ad Alassio?»
«Figlia mia, dio solo sa quante labbra si possono incontrare vicino al mare.»
È chiaro che sono stata adottata.
Quando è mancata, disfare i suoi armadi mi richiesto mesi: energie fisiche ed emotive colossali. Lei era in ciascuno dei suoi oggetti. Oltre al resto aveva almeno duecento foulard, una ventina di cappelli e i rossetti alla fine erano 427. Quattro-cento-venti-sette: la giacenza media dell’ingrosso di una profumeria. Li ho tenuti. Dio solo sa di quanti dei suoi baci avrei ancora bisogno.
Con Pietro faccio veloce.
«Mamma, quello che mi serve lo compro là. Lasciami la tua carta di credito, se vuoi…»
Dopo una vita di scambi scolastici, Erasmus, un anno in Australia a lavorare in una piantagione di banane e un master da finire a Parigi, le sue valigie sono quelle dei ritorni: panni sporchi da lavare e biancheria macilenta da sostituire. L’unico vezzo, che ha fin da bambino, è quello di portare con sé ovunque vada un album da disegno e una matita, 3B o più pastosa, se possibile. Ha un talento naturale per il disegno: non ha mai studiato eppure è bravissimo nel cogliere l’essenza di volti, paesaggi, architetture. Una cosa che tiene per sé. Solo una volta in un tema di quinta elementare ha parlato di questo dono: “…nelle matite ci sono già tutti i disegni, nelle nostre teste il modo migliore per farli”. Conservo un ritratto, che mi ha fatto di nascosto: un viso tracciato in poche righe e molte ombre, con gli occhi socchiusi, l’espressione dolce ma stanca. È l’immagine che mi rappresenta di più. Io che fatico tanto e penso di non farcela, io che vorrei controllare ogni cosa e non sono mai pronta a ciò che accade. Io che so fare le valigie agli altri, ma m’incazzo se vogliono fare la mia.
Sto cercando di cambiare. In questi mesi mi sono allenata moltissimo. Trolley minimalista per il fine settimana in montagna: calze e pantaloni pesanti, qualche maglia tecnica – tanto io non scio –, uno scialle caldo per la sera. Buoni libri. Nessun’altra chincaglieria.
Borsone per le città d’arte: scarpe comode per le mostre, ma vestito fighetto per la sera, come insegna Elena. Un ventaglio e un foulard rubati dalla collezione di mia madre. Un campioncino di profumo e la collana di corallo rosso. Se arte dev’essere voglio esserlo anch’io.
Per il mare mi porto pochissimo: voglio vivere in ciabatte, pareo e quei vestiti svolazzini fatti di sole e vento. Sì: crema solare a secchi, ma poco altro. Tanto qualche cianfrusaglia me la prendo di certo alle bancarelle.
Faccio e disfo. Ripongo le cose con cura dopo averle piegate al meglio. Lascio il bagaglio sul letto a reclamare l’urgenza di un treno da prendere, di un aereo da non perdere. Penso alla sveglia puntata troppo presto e alla colazione in Autogrill. Poi spengo la webcam puntata sui posti che amo: quelli che conosco e quelli dove ancora voglio andare. In questo anno ho imparato a conoscerli bene, senza esserci mai stata. Respiro. Mi tranquillizzo. Ho imparato a non dare per scontata quest’aria che entra ed esce dai miei polmoni. Ho imparato che le cose accadono e noi possiamo controllare ben poco, possiamo essere noi stessi e fare qualche scelta. Diventare quella scelta.
Cosa potrebbe servirmi a Venezia? Lo scialle di seta color acquamarina, che fa risaltare il colore dei miei occhi. Non vedo l’ora di tornarci. Qualunque cosa accada.