Il mio corpo ha una ferita che sanguina da quasi quarant’anni. A intervalli irregolari ricorda sfacciatamente al mondo la mia decisione di essere incubatrice spenta, portatrice di vita mai in regalo ma di proprietà privata esclusiva.
Se si nasce femmine, la dimestichezza col sangue la si acquisisce molto in fretta: condanna o benedizione che sia, non ci fa paura toccarlo con le mani; sentirlo colare tiepido lungo le cosce; vederlo disegnare tondi irregolari sul pavimento.
Quel tributo mensile mi ricorda che sto esercitando un potere sul mio corpo e sul mondo: il potere di decidere, di non chinarmi agli obblighi indotti dalla natura e fomentati dalla società.
Al “tu donna partorirai con dolore” ho risposto con un’alzata di spalle e ho preferito fare altro: dormire, viaggiare, fare l’amore, ubriacarmi, fumare, disegnare, fare bolle di sapone, ascoltare jazz, scrivere, fotografare. Innamorarmi di me stessa.
Il dolore è arrivato comunque attraverso altre vie, come è naturale che sia.
A cinquant’anni, il corpo ha perso la tonicità di un tempo, il viso non è più molto luminoso, i gesti si sono fatti più lenti e le rughe hanno tracciato una mappa impietosa fra la fronte e le labbra. Eppure il mio utero fiorisce con rinnovato vigore, quasi un gesto di sfida.
So però che il mio potere si sta esaurendo; fra poco non sarà più scelta mia ma di madre natura e non so se sarà doloroso o meno passarle lo scettro.
Per ora sorrido, così come ho sorriso a tutti quelli che nel corso degli anni mi hanno chiesto perché, poi hanno ipotizzato che non fosse una scelta ma che in realtà non potessi, usando parole di compianto ridicole, fuori luogo.
Non ho rimpianti e nemmeno ripensamenti.
Mi sono madre e figlia: mi abbraccio da sola, mi consolo quando serve, mi rimprovero e ho imparato a perdonarmi.
Completa nella mia incompletezza, perfetta nella mia imperfezione.
©Viviana Gabrini, 2019