Riccardo, amore mio, questa è l’ultima preghiera che faccio per te, per salvarti da Dio, visto che non sono riuscita a salvarti da me. Ancora parole, dirai tu, sempre parole, parole senza figure. Senza immagini, volti, mani a stringere, abbracci a riscaldare e tutto il resto delle cose vere. E avresti ragione a dirmelo, ma sei così piccolo che non potrei mai immaginarti come qualcosa di simile a un bambino già nato, di quelli paffuti e carnosi delle pubblicità. Sei, da quello che ho visto dall’ecografia, più simile a un pesciolino, così ti immagino tutto cuore e orecchie, tutto battito; e non mi resta che parlare, continuare a costruire strati di parole inutili. Anche adesso che sei morto e che sono qui ad aspettare, stesa su di un letto bianco come il mio viso, che qualcuno ti gratti via da me. E ora che non sono più tua madre, ma solo la tua bara vivente, mi sembra di essere persino utile a qualcosa.
Avevo un’altra storia prima di te e un’altra ne avrò dopo, ma io ti giuro, e devi credermi, che non mi ero mai sentita così indispensabile per qualcuno, come non lo sarò mai più dopo di te. Così questa preghiera che io sto per fare diventerà una specie di Caronte e ti traghetterà verso qualcosa che non so ma che deve – deve – esserci. E questo, almeno questo, Dio me lo deve garantire. Finisce oggi, così, la tua crociata da soldatino di stagno, combattente del nulla. Non ho saputo darti nulla di buono così, mentre arrivavo in questo posto, ti ho battezzato con l’acqua una pozzanghera che ho calpestato scendendo dalla metro e poi ti ho dato il nome che ho immaginato più bello nello spazio di quei pochi minuti per arrivare qui. Non ti ho chiesto mai il motivo, un solo motivo per cui sei stato con me per questi pochi mesi. Non ho fatto domande a te come non ne ho fatte alla vita, forse per questo non ho avuto risposte.
Palumba muta non po’ essiri sirvuta, diceva mia nonna: la colomba era morta di fame perché non sapeva chiedere da mangiare. Anche tu non hai saputo chiedere di più lasciando decidere la sorte per te e per me. Quindi ho continuato a fare la vita che facevo, lo stesso lavoro, la stessa fatica, ignorandoti.
Allora la morte ti ha preso per farci un giro, così, come si fa con una puttana da annunci sui giornali, poi ti ha ucciso come sa fare e adesso eccoti, ti ha riportato a casa, in braccio a me, vestito di sangue. Sei rimasto poco, giusto il tempo di poche chiacchiere, come farebbe un ospite cortese prima di togliere il disturbo. Tu lo capivi che ero lì solo per deluderti, ubriaca di paura.
Così ti accompagno dalla vita all’immondezzaio: abituato al caldo, cullato dalle mie cinque dita, ti trivello sotto le mandibole di un ferro chirurgico. Adesso, in questo un lettino sterile, mi ricordo la favola dei figli sgraditi che si abbandonano nel bosco; ma stavolta, amore mio, non serve disegnare sentieri di briciole o sassi: per ritrovare la strada di casa userai il mio stesso sangue.
L’embrione non si seppellisce, mi dicono, non è previsto: neanche il condono di uno sputo di acquasanta o di una coperta per non farti gelare dentro quella busta che verrà divorata dal tuo corteo funebre di topi affamati. E allora prego, a saperlo fare prego anche se non so da dove si inizia e dove si finisce. Se non so ricordare a memoria i rosari da snocciolare, e sì che me li inventerei, piuttosto. Prego anche se non so chi pregare ma so che devo altrimenti, sa lasciassi fare solo a questa giornata, a queste ore o a quelle che verranno dopo, non potrebbe essere che peggio. Così ci provo.
«Dio giocoliere, lo so, non sei qui per parlare. Io ho preso le tue abitudini: in silenzio guardo mio figlio scuoiato uscire dalla mia porta; fugge via come un ladro di miracoli e scivola dalla sua stanza arredata proprio dietro il mio ombelico. Vende la vita a peso e non ricava nulla perché la morte che ti sei inventato è una puttana cannibale. Ora, io andrò a spiare il suo avanzo per l’ultima volta: un bambino di tre centimetri steso per lungo senza scarpe, che guarda fisso la sua bara di cellophane, che prende le ferie anticipate cercando di non sporcare. Una piccola carcassa che non chiede giocattoli o pane ma vedi, Tu non lo sai Dio, ma chi è morto non ha mai ragione, chi è morto ha perduto, chi è morto è morto; e così sia. Senza tregua. Una cosa però l’ho capita: la vita cammina da sola, senza forza di volontà, o gesti eclatanti, coraggiosi… uscirò da qui e sarò viva, semplicemente. E se qualcuno si accorgerà dei miei segni, delle mie lacrime, e mi chiederà cos’ho, ecco, risponderò che non ho niente: e tu saprai che non mento».
©Katia Colica, 2019
racconti malinconici, tristi e di “lacrime di speranza”.
complimenti