Lettere da una sconosciuta [3] di Marcella Leonardi

Beetlejuice (1988) di Tim Burton

Il viso di Keaton/Beetlejuice ha un make up sporco, destrutturato, offensivo: una faccia di fango e gesso complementare al suo abbigliamento avanguardistico a righe bianche e nere. Beetlejuice è un segno grafico inconfondibile, è anarchia emersa dalla terra per uccidere il chiaro di luna e rivoluzionare immaginativamente il mondo circostante.
Il film, del 1988, è tra le opere migliori di Burton e dispiega in poche inquadrature l’intelaiatura gotico/espressionista su cui si articolerà il suo cinema, rovesciata sullo spettatore con una spinta gioiosa e blasfema che raramente si riscontrerà nelle opere successive. Con Beetlejuice, Burton porta una visione di purezza iconoclasta derivata dallo spirito dei vecchi horror della Hammer films, che aveva studiato ed amato. Di quell’innocenza Burton si fa portavoce tendendo la mano tra la vita e la morte in un’opera senza coerenza strutturale, episodica, disobbediente quanto l’antieroe del titolo; una sorta di riscatto artistico al suo disagio giovanile, in forma di sberleffo irriverente.
Michael Keaton è perfetto nella sua incarnazione contemporanea della malvagità: orribilmente mediocre, seriale, pubblicitario. Come “Bio-esorcista”, non è differente da un venditore di automobili. La sua ipocrisia strisciante, il suo mercanteggiare impediscono l’idea di serietà persino nel male – Beetlejuice è un buffone, ed in questo persino amabile, ed umanamente frustrato: conscio della sua insufficienza, nei suoi monologhi si lascia andare ad esplosioni di rabbia che stonano col film, per riprendersi subito dopo con le sue clownerie. La pagliacciata di Keaton è l’aspetto più tragico del film: nell’ America dei sobborghi nemmeno il male ha più una sua dignità.

© Marcella Leonardi

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