Cani e padroni di cani [5] di Sandra Giammarruto

© Perfect Vacuum di Jeremy Geddes

PASSI

Alla fine di dicembre, mentre la temperatura è quasi vicina allo zero e le donne e gli uomini addobbati di buste, in corsa contro il tempo, si urtano, si maledicono, si osservano per pochi istanti tra le porte scorrevoli dei supermercati, Agata varca un’ altra porta. Quella di un ospedale.
Anche questa sera schiena dritta, testa bassa. Passi corti rasenti al muro. Nella borsa, caffè e cioccolatini per gli infermieri che le permettono di rimanere accanto al padre di notte.
Alle prime luci dell’alba le palpebre le pesano come sull’ultimo foglio mille pagine di libro. A fatica, si alza in piedi. Non sviene ma quasi.
Il pavimento riluce di giallo. Il padre dorme. Agata percorre in punta di piedi la stanza. Il suo sguardo vaga attraverso la finestra, fino al parcheggio semivuoto, alla tangenziale già carica di auto, al grosso peso trasportato da una gru, a quello che invece le staziona silenzioso dentro.
Lungo il corridoio, tra i lamenti stonati, le chiacchiere, i toni severi, le porte che si aprono, i telefoni lasciati squillare, una donna alta e magra spinge il carrello con le colazioni dei pazienti. In ospedale la routine non lascia spazio ad equivoci.
Dello scorrere del tempo Agata non ha cognizione. Di notte scandisce i secondi con il contagocce della flebo attaccata al padre. Quando, nella penombra, l’immagine del flacone capovolto è quella di una mongolfiera troppo piccola per volare via e le ore sembra non passino mai.
“Signora, è riuscita a riposare?” le chiede un’infermiera porgendole un bicchiere di plastica incandescente.
Agata alza le spalle. Risponde solo grazie. L’infermiera vede qualcosa in quello sguardo che non le fa aggiungere altro.
Agata beve il caffè senza sentirne il sapore. Poi, rimette in tasca e nella borsa le sue cose. In fretta, prima che arrivino i medici, ripiega la sdraio che a malapena riesce a reggere in mano. Si sfila le pantofole. Si massaggia per un istante il collo dei piedi. Indossa le scarpe. Esce dalla stanza e dal reparto. Cammina veloce verso la sala d’aspetto e, quando i medici finiscono di visitare i pazienti, ritorna dentro. Cerca il dottore, il “professore”. Lo raggiunge.
“Buongiorno, ci sono novità?” domanda Agata, mentre i primi visitatori attraversano il corridoio. Donne con passo deciso. Buste stracolme nelle mani. Tacchi bassi che sbattono sul pavimento.
Agata resta immobile, a braccia conserte, aggrappata alla bocca di un uomo che la osserva come se avesse capito l’antifona. Il professore in camice bianco oggi non ha voglia della sfiducia, delle contestazioni, della testardaggine di quella giovane donna.
“Venga con me.” Le risponde.
L’uomo cammina deciso verso un altro reparto. Dopo pochi passi si ferma.
“La vede questa stanza?”
“Sì.”
“Lo sa chi c’era qui dentro?”
“No.”
“Mia madre.”
Il cuore di Agata batte forte. La faccia le si arrossa sempre di più.
“Secondo lei se avessi potuto salvarla, non lo avrei fatto?”
Agata non dice una parola. Lo fissa come se non riuscisse a capire quello che le ha appena detto. Si aprono le porte di un ascensore. Una donna bassa trascina un carrello con le cartelle dei pazienti. Il dottore va via con falcate ampie, veloci, decise.
Agata ritorna dal padre. Gli bacia la fronte. E, quando gli tira le coperte fin sopra il petto, osserva il solito movimento quasi impercettibile dei suoi piedi. Poi, lentamente si muove per uscire dall’ospedale. Scende le scale con la testa che le pulsa. A stento respira. Trema in ogni fibra del corpo. Forse ha la febbre. L’aria fuori la fa sentire un po’ meglio, nonostante le lacrime le salgano agli occhi e riesca a vedere solo creature fluttuanti.
Alle undici inizia il suo turno di lavoro. Nella sua postazione, dietro la cassa, tutto sembra strano, perché è come se lei non ci fosse.
“Signora! Facciamo notte?” Urla uno degli uomini in fila facendole cenno di sbrigarsi.
“Scusate” dice e riprende a far passare uno dietro l’altro i prodotti. Patatine in busta, panettone, carne macinata. Agata oscilla in avanti. Trattiene un conato. Gli occhi le stanno per saltare fuori dalle orbite.
La sera ritorna a casa con un passo lento e lo sguardo assente. Arranca. Trascina i piedi con le braccia incollate al corpo. E, quando finalmente è dentro, pianta a terra la busta con la biancheria sporca del padre. Si accascia contro la porta appena chiusa.
“Ma! Maa!” Urla una voce.
Agata tasta il pavimento. Si dà una spinta con le mani. Si rialza appena in tempo. Maria sbuca da dietro l’angolo della cucina con le braccia aperte e il suo equilibrio precario. Ginocchia aperte, paffute, flesse. Piccoli passi sulle punte. Uno dietro l’altro.
Agata allunga le mani. La prende in braccio. Sorride in preda alla nausea.
“Tesoro hai fatto da brava o hai fatto disperare papà?”
“Ma… ma… ma… mamma.”
“Hai detto mamma!” Urla Agata sorridendo e piangendo allo stesso tempo.

© Sandra Giammarruto

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