La nostra altezza

Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura”

Emily Dickinson

Un viaggio bellissimo. Le spiagge cipria, il solletico delle onde acquamarina se le era meritate davvero. Steso sul bagnasciuga si godeva la brezza, i piedi immersi in quella smisurata trasparenza, la pelle avida di sole.
Capiva le lucertole – non ci aveva mai pensato prima – ma ora le capiva: il sangue che sghiaccia, la vita che torna a fluire nelle vene passando dal sole. Ecco, questa era la sua flebo di luce. Le flebo vere, gli aghi, i respiratori, le piaghe della mascherina sul naso e sotto gli occhi, il non potersi grattare, il fastidio di tutto, erano un ricordo lontano. Irreale. Forse non era nemmeno successo. Forse.
Sentì pizzicare una gamba. Sobbalzò. Era qualcosa di più di un pizzico: una lama, un dolore acuto, persistente. Scosse il polpaccio, agitando insieme il granchio che non accennava a mollare la presa. Si gettò in acqua. Accennò qualche gambata a rana, incerto con le braccia. Scalciò forte. Il granchio, offeso da quella batrace pantomima, aprì le pinze. Il sollievo fu immediato. Tornò a rilassarsi. L’acqua era troppo bella, continuava a stupirsi di quanto fosse trasparente. Una roba mai vista. Gli restituiva una visione limpida dopo le tenebre.
Decise di fare snorkeling. Tornò a riva per prendere pinne, maschera e boccaglio: anche un plantigrado come lui, tutto casa, ospedale e pianura, aveva diritto a quel mare lì, aveva diritto anche lui a una cura, dopo tutto quello che aveva visto. Perché ne aveva visti morire tanti. Non ci si abitua mai. Moltissimi erano guariti, ma quelli che non era riuscito a salvare se li ricordava uno per uno. Un ricordo che nemmeno il sole asciugava.
Provò a concentrarsi. Si infilò le pinne con cura e quel gesto gli ricordò la vestizione complicata di quei giorni: copriscarpe, tuta sopra il camice, mascherina, sovra mascherina, occhiali, visiera, guanti nei guanti.
Un guerriero di carta igienica cantava Umberto Tozzi. Ora lo capiva – non ci aveva mai pensato prima – ma ora lo capiva come ci si sente a essere guerrieri di carta igienica. Lo era stato. Fortissimo e indifeso.
Però ora c’era il mare: immenso, accogliente. Si lasciò portare, dando solo qualche pinnata di tanto in tanto, immerso in un silenzio solenne. Pesciolini schizzavano da ogni parte: lampi d’argento come le foglie dei pioppi al vento. Certo che rimaneva sempre un contadino anche ai Caraibi. Scivolava lento, a pelo d’acqua, pensando che la barriera corallina è l’equivalente acqueo della Via Lattea. Era come nuotare fra le stelle.
Gli parve di vedere un cavalluccio marino, scomparso in un attimo fra le gorgonie. Li adorava: Hippocampus Rafinesque, gli unici pesci che nuotano all’indietro, in verticale. Chissà poi perché aveva scelto Medicina invece di Veterinaria, lui che era nato e cresciuto in una cascina. Lo sapeva invece: per dare una soddisfazione a suo padre. Era la prima volta che lo ammetteva, che lo diceva a sé stesso.
«Meglio un mezzo medico vicino che uno intero lontano» era la frase che gli aveva ripetuto il suo vecchio fino all’ultimo giorno, con orgoglio. E lui quello aveva cercato di essere, un dottore vicino ai malati, anche se molte volte in quell’orribile circostanza, si era sentito molto meno della metà.
Ma, accidenti: entrava acqua dal boccaglio! A furia di pensare si era spinto in profondità. Bravo scemo. Provò a pinneggiare per risalire: sentiva le gambe pesantissime, come stesse nuotando nelle sabbie mobili, un’oppressione al petto, fame d’aria. “Embolia polmonare” pensò, troppo abituato alle diagnosi, “…com’è possibile? Mica sono stato negli abissi…”.
E invece sì.

«Bravissimo dottore! Bentornato». Era Mariani, il suo secondo. La voce sembrava arrivare da chissà dove.
«Ti sei fatto un bel viaggetto eh, doc? Guarda che la pacchia è finita! Hai voluto farci un giro di giostra pure tu, con ‘sto cazzo di virus. È ora che mi liberi il ventilatore adesso, che ne abbiamo bisogno. La procedura la conosci meglio di me. Mi capisci, vero?»
Rispose con un cenno lievissimo della testa.
«Procedo all’estubazione: me l’ha insegnato un certo primario, quindi se lo faccio male è colpa sua… Ti avverto, c’è rischio di vomito e laringospasmo, ma non prendere scuse, che la vacanza è finita…»

Dedicato a tutti i medici e gli infermieri che si meritano la più bella vacanza della loro vita dopo tutto questo. A chi è riuscito a trasformare una maschera da snorkeling in un respiratore per salvare vite umane. A loro sempre grazie.

©Anna Martinenghi, 2020

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