Storie in minigonna (racconti brevi che lasciano le gambe scoperte) [1] di Anna Martinenghi

© Dedicato alla Donna Seduta (1917) di Egon Schiele

La donna seduta

La stanza è buia ormai; forse la lampada si è spenta o il sole è tramontato fuori dalla finestra aperta. Con un solo occhio è difficile distinguere i particolari. Vorrei i suoi occhiali per vedere meglio, ma so che non mi darà questa soddisfazione. Lui si stacca da me, lasciandomi ai miei dubbi e rimboccandosi le maniche della camicia logora. Lo sento armeggiare; forse sta sostituendo la lampadina o versando l’olio nel lume. Non so nemmeno in che anno siamo e se ci sia corrente elettrica in questa stanza.

Non che sia importante nella mia condizione: sono solo uno schizzo, una figura di donna seduta a terra, intagliata da linee secche e decise, con un solo occhio e un cespo di capelli rossi, aggrovigliati in testa. Forse lui tornerà da me e mi aprirà anche l’altro occhio, mi darà mani, mi darà un corpo, forse mi cancellerà o mi lascerà con questo sguardo incompleto sul mondo. Non ho età, non ho tempo, non so nemmeno quale sarà il mio destino, ma sento di esistere, di “essere” in queste pochi tratti che mi tengono insieme.

La luce torna a illuminare la stanza. Qualcuno chiude la finestra. Percepisco la sensazione del silenzio che inghiotte i rumori provenienti dalla strada. La tela è attraversata da vibrazioni di luci e di suoni, flussi di energie diverse che filtrano nella materia ultrasensibile di cui sono composta. È dunque questo il mio destino: ricevere, sintetizzare, divenire essenza vibrante.

Sembra che lui lo sappia; lo comprendo dall’urgenza del suo segno che mi dà forma, che mi conferisce quest’aria disperata, questo broncio definitivo: le gambe aperte, la schiena curva. Sfrontatezza o timore? Seduzione o malinconia? Decidetelo voi…

Sono l’inquietudine di quest’uomo che morirà tra poco meno di un anno, sono l’angoscia di questo tempo. Sono il volto emaciato di una donna, il cui nome andrà perso negli anni, ma non il suo senso: avvilita, non vinta, angosciata, ma non sconfitta dall’angoscia.

La riconoscete vero? L’avete già incontrata in altri volti, in altre donne che non passeranno alla storia, ma che la storia la portano a spasso ogni giorno. Chissà se si alzerà da lì, se reagirà a quel momento di sconforto, raddrizzandosi sulla schiena, ravvivandosi i capelli o continuerà a bollire nel suo brodo, nella fatica del vivere. Chissà se riuscirà a mitigare le ansie dello spirito e del corpo.

Anche Egon non lo sa. Dipinge per esistere, dipinge per resistere: alla guerra che infuria, al mondo conosciuto che va sgretolandosi sotto i suoi occhi, alla miseria che per gran parte della sua vita gli è stata compagna, alle critiche severe degli accademici dell’arte.

Non sa dipingere diversamente, senza cogliere l’essenza dei suoi anni, la miseria degli esseri umani, le loro profonde inquietudini. Le sue stesse inquietudini.

Eccomi qui. Mi osserva, sembra soddisfatto. Non sono più la modella che ha ritratto, non sono più cosa sua. Non so nemmeno in che anno siamo. Ma non importa. Ora guardatemi. Sono nel vostro tempo. E vi guardo, con entrambi gli occhi spalancati sul mondo.

 © Anna Martinenghi

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