Le lettere che non ho mai scritto [7] di Barbara Garlaschelli

© Madre e figlio di Federica Ciappi

Cara Rosa,

solo ora, dopo pochi anni, riesco a scriverti quello che avrei voluto dirti allora, mentre Alessio se ne stava andando per una malattia feroce che a quarant’anni se l’è portato via, lasciando te, Enrico suo padre, A. il suo bimbo di due anni e R. la sua compagna, agghiacciati e soli nel vostro stupefatto dolore.

Era il vostro unico figlio e lo adoravate. Altissimo e aitante, più che suo padre che già è un omone, era di una dolcezza tanto in contrasto con la sua mole. In questo aveva preso da te che sei una delle donne più buone e dolci che io abbia mai conosciuto. Per buone intendo generose senza aspettarsi nulla in cambio; rassicuranti; preoccupate del prossimo, la porta di casa sempre aperta, un piatto in più sempre pronto; sempre disposte a fare, non solo dire di fare.

Tu ed Enrico – che con Renzo formavano una formidabile coppia comica – siete il sole e la luna: tu piccola, rotondetta e dalla voce flautata; lui grande e grosso, con il vocione. Tu abruzzese di nascita, lui milanese fino al midollo, uno di quelli che il dialetto lo parlano ancora. Con Renzo creavano scenette da morir dal ridere. Un loro classico – Enrico era l’autista della CTA che mi portava in giro per lavoro, accompagnata da Renzo, Franca e se era per presentazioni il pulmino diventava un mezzo carico di amici che non si volevano perdere un viaggio in compagnia di quei due -, un loro classico, dicevo, era quando Renzo aspettava che arrivassimo a un bivio e poi raccontava una storiella a Enrico, una di quelle che gli aveva raccontato un milione di volte ma che lo faceva sempre ridere, al punto che, lacrime agli occhi, prendeva ad agitarsi e, sempre, sbagliava strada. Sempre. Le nostre gite diventavano epopee, con fermate fuori programma, strade sbagliate, il pulmino che arrancava mentre Renzo, serissimo, diceva: «Uè, ci ha superato anche un’Apecar!», ed Enrico giù a ridere e noi a urlare «no no che adesso sbaglia…» E infatti… Partivamo con due ore di anticipo per essere – quasi – certi di arrivare in orario agli appuntamenti.

Spesso venivi anche tu, Rosa. Molto più di rado Alessio. Erano le occasioni nelle quali lo vedevo, perché noi frequentavamo più te ed Enrico. Posso dire di averlo visto crescere nel pulmino, Alessio. Prima piccolo che arrivava ai poggiatesta e poi talmente alto da essere costretto a rimanere piegato per aiutami a salire.

Aveva un’espressione ionica. Enrico e Renzo cercavano di metterlo sotto il loro fuoco incrociato di battute, ma lui le schivava tutte. Cercavano di imbarazzarlo chiedendogli delle fidanzate – era anche molto bello -, e lui con un sorriso svicolava. Fino a quando si è innamorato davvero, di R., allora gli si illuminava lo sguardo, e i terribili due non trovavano più gusto a prendere in giro un innamorato vero.

Mi ricordo quella sera di fine novembre nella quale Franca mi ha chiamata al telefono per dirmi che avevano ricoverato Alessio, che era gravissimo. Ma gravissimo quanto? Sta morendo. Ma sei matta? Stava bene fino a un mese fa! Sì, sapevo che aveva avuto dei disturbi, era molto dimagrito e molto in fretta e infatti ti avevo chiamato, Rosa, e con tono preoccupato mi avevi detto, allora, che gli stavano facendo egli esami. Ma in fin di vita? Ho salutato Franca e preso coraggio ti ho chiamata. Eri in ospedale. Con la tua voce dolce, calma mi hai spiegato la situazione: Alessio aveva una malattia di cui non ho afferrato il nome ma tant’è, e c’erano poche probabilità che se la cavasse. Poi ti sei messa a piangere, l’unica volta sino a quando è morto. Ti chiamavo sempre o ti scrivevo sms e tu calma, dolce, mi parlavi, mi scrivevi. Mi chiedevi sempre come stavamo noi; di stare vicino alla mamma perché l’aveva presa male questa storia… E io, esterrefatta, che mi domandavo come riuscivi a preoccuparti di altri mentre il tuo unico figlio stava morendo e soffrendo? A chi me lo chiede, dico: ecco, questo per me è essere buoni. Amare gli altri a oltranza, al di là di sé, laicamente, senza parole di troppo, senza finti doveri. Preoccuparsi degli altri perché nessun uomo è un’isola.

Non ho dormito per un mese, per tutto il tempo che Alessio è rimasto in ospedale. Sapevo come fosse un ospedale, da paziente, e sapevo cos’era aspettare che qualcuno si occupasse di te, ti alleviasse il dolore e la paura.

L’ultimo dell’anno io e Giampaolo abbiamo fatto un non brindisi, piangendo. Alle sette del giorno dopo è arrivato un tuo sms: “Alessio ci ha lasciati. Lo dici tu alla mamma? Fallo con dolcezza.” Io guardavo il messaggio e continuavo a pensare a te e a Enrico che già senza il suo amico Renzo rideva meno volentieri. Pensavo a come ce l’avreste fatta. Pensavo ad A., piccino, con l’inconsapevole compito di traghettarvi fuori da un dolore inimmaginabile.

E così è accaduto. A., ora grandicello, identico a suo padre, vi ha portati con sé, dalla parte della vita, da quella verso cui avrebbe voluto Alessio.

Non ho mai saputo trovare le parole, non le so trovare in certi momenti, e anche se le trovo mi suonano vuote e inutili, ma avevo scritto questo monologo per te, Rosa. Non te l’ho mai consegnato. Lo farò ora insieme a questa lettera.

Tua, Barbara

Eccoci qua, io e te come doveva essere come sempre stato e come sempre sarà.
Ti ho messo al mondo ti ho regalato al mondo ti ho lasciato al mondo.
Ne avessi avuti due tre cinque dieci cento di figli per non sentire questo dolore che non è nemmeno più dolore.
Non ne avessi avuti di figli per non sentire tutto questo vuoto che non è più nemmeno vuoto.
Che non c’è nemmeno più una parola per raccontare.
E vedo gli altri piangere e io non riesco a piangere.
Riesco solo a pensare che tutto deve essere fatto nel modo giusto, che tu devi essere pulito, lavato profumato, che hai gli occhi chiusi perché sei concentrato come me su come si deve andare fuori di scena e dove si va ora.
Che voce ha la tua voce?
Che voce ha la tua voce?
Che è un secondo che te ne sei andato e io già non riesco a ricordare la tua voce.
E siamo qua, io e te, e tu sei più vivo di me perché ti sei moltiplicato in tutti e io sono sottratta al tempo che non c’è più tempo non c’è più sole né mare né casa.
Non c’è più niente, nemmeno la carne e le ossa e i respiri.
Hai tutto tu.
E allora, per favore, non lasciarmi andare la mano, nemmeno ora che è fredda fredda come quando correvi nella neve e dicevi mamma guarda guarda cade dal cielo come la farina ma è fredda mamma guarda.

Mamma.
Guarda.
Mamma.
Guarda.
Ti guardo.
Gioia.
Ti guardo.
Mio amore.
Ti guardo.
Ma tu, ti prego,
torna a guardare me.”

 
 
©Barbara Garlaschelli, 2018

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