Le lettere che non ho mai scritto [6] di Barbara Garlaschelli

foto da web

Caro Peppo Pontiggia,

una volta mi hai detto di darti del “tu” ma io che non ho mai provato soggezione nei confronti di nessuno, non sono mai riuscita ad accontentarti. Lo farò in questa lettera.

Quando ho iniziato a frequentare i tuoi corsi di scrittura – l’ho fatto per due anni di seguito – non mi ero ancora laureata ma sapevo che volevo essere una scrittrice. Stavo terminando Lettere Moderne alla Statale di Milano e tu tenevi già da qualche tempo quelli che hanno rappresentato i primi corsi di scrittura creativa in Italia. Oggi li tengono in moltissimi; tanti sono bravissimi scrittori, altri non hanno mai pubblicato nemmeno un libro. Però insegnano. Che è un po’ una caratteristica del nostro Belpaese: se non sai, insegni.

Li tenevi al teatro Verdi, un gioellino all’interno del quartiere Isola, a Milano. Ricordo il freddo che ci faceva perché al pomeriggio il riscaldamento era al minimo. Eravamo in trenta, quaranta persone, sparse per la piccola sala – che però in quelle occasione appariva enorme -, ognuno chiuso nel proprio mondo fatto di aspettative, timidezza, attenzione alle tue parole.

Il tuo tavolo era in sala, piazzato sotto il palco, al nostro livello. Arrivavi sempre dopo di noi perché ci lasciavi il tempo di posare i nostri racconti sul tavolo senza metterci in imbarazzo. Erano tutti scritti in forma anonima, in modo che tu potessi analizzarli – che significava ucciderli e sezionarli – senza indurci al suicidio per la vergogna. Non lo facevi per sadismo ma per spiegarci cosa funzionava e cosa no; che parole andavano usate e quali no; l’attenzione che dovevamo prestare alla punteggiatura, all’abuso delle metafore, a evitare le forzature. A non innamorarci delle nostre parole.

Parlavi con una voce un po’ nasale e un accento particolare (ho scoperto dopo che eri nato a Como).

Quando raccontavi dei libri, della narrazione, degli autori, il tempo si sospendeva, ma non per modo di dire. Ancora adesso non ricordo quanto durasse ogni incontro. Accadeva, in quel teatro, una magia che solo chi sa usare bene le parole riesce a creare ed è proprio una caratteristica che ha anche fare con la scrittura: si chiama “sospensione dell’incredulità”, frase di Coleridge, che significa che il lettore – nel nostro caso gli allievi – deve credere e sospendere per un momento la sua naturale incredulità di uomo razionale se vuole “attingere a quel dono magnifico che è l’immaginazione del poeta, potere grandioso che permette non solo di immaginare ma di creare o, meglio, ricreare la realtà, componendo in un unicum meraviglioso le contraddizioni che la caratterizzano” (da una lettera a Repubblica di un professore). Ecco, noi allievi ti ascoltavamo rapiti e nello stesso tempo concentrati a carpire le formule che avrebbero fatto di noi degli scrittori.

Ma tu, da uomo schietto e sincero qual eri, ce lo hai sempre detto: “Guardate che non si diventa scrittori per aver frequentato uno o cento corsi di scrittura creativa. Diventano scrittori solo quelli che hanno alcune attitudini e sicuramente dopo un duro lavoro. Le scuole di scrittura, o un buon insegnante, possono aiutarvi a raffinare la tecnica, o se siete molto fortunati, a scoprire il talento e portarlo alla luce. Ma poi è colui che il talento lo possiede a decidere se coltivarlo o meno.”

Citavi in continuazione frasi di grandi autori (che ho tuttora trascritte in un quadernone verde) e le inserivi in un contesto di narrazione perché potessimo comprenderle nel loro profondo. Eri un uomo dalla cultura immensa ma non t’importava sventolarla in giro; bastava parlassi e tutto ciò che sapevi ti illuminava. Non eri umile, bensì sobrio e consapevole. Non fingevi, non cercavi di illuderci, non eri per nulla compiacente. Volevi che capissimo il valore non solo della scrittura ma dei libri, che possedevi a migliaia.

Uno dei momenti più intimi e ravvicinati che abbiamo avuto è stato una sera d’inverno. Aspettavo con Renzo, al termine della lezione, che venisse a prendermi il pulmino della CTA addetto al trasporto di disabili. Non era la prima volta che mi vedevi salire su quella pedana per entrare nel veicolo che mi avrebbe portato a casa, ma quella sera, mentre gli altri allievi ti passavano accanto salutandoti e se ne andavano frettolosamente chiusi nei loro cappotti, inghiottiti dal freddo di Milano, ti sei fermato accanto a me e mi hai parlato di tuo figlio, del fatto che anche lui aveva problemi motori, che faceva molta fisioterapia – lei ne fa? Non tanta. Mmmmm. Parlavi sorridendomi, con quell’ironia che albergava nel tuo sguardo e che mi metteva in agitazione. Poi hai scambiato due battute con Renzo (che se le è godute tutte le tue lezioni, in fondo al teatro). Non ricordo più con esattezza le parole, ma i volti e i toni di voce sì: quelli di due uomini che condividevano un dolore e un destino.

L’ultimo giorno del corso ho raccolto il coraggio e chiesto a Renzo di mettere il mio racconto sul tavolo, prima del tuo arrivo. Come sempre, dopo averci salutati, iniziavi con la lettura di un nostro incipit che poi avresti dissezionato.

Come fosse ieri, ti vedo prendere un foglio e cominciare a leggere ad alta voce. Si tratta del mio racconto. Mi si chiude lo stomaco. Dopo aver letto qualche frase, sollevi la testa e dici: “Ecco questo è un buon incipit”*. Pensavo sarei caduta dalla carriola e devo aver cambiato colore perché tutti si sono voltati verso di me e mi hanno applaudito ridendo della mia gioia mista all’imbarazzo. Era la prima volta che non massacravi un nostro lavoro.

Quando ho cominciato a pubblicare ti ho mandato, sempre, il libro in uscita e tu, sempre, mi hai scritto – a mano, con una calligrafia chiara ed elegante – un biglietto di ringraziamento o una breve lettera nella quale mostravi il tuo orgoglio di insegnante. Qualche volta ci siamo sentiti al telefono.

Quando sei morto, ho chiamato casa tua. Mi ha risposto tua moglie, Lucia, una donna simpatica e a cui piaceva molto – ho scoperto dopo – chiacchierare. Quando le ho detto il mio nome e cognome, iniziando a spiegarle che ero una tua allieva, mi ha interrotta: “So bene chi sei. Peppo mi ha parlato di te e dei tuoi libri. Li ho anche letti. Sei proprio brava come diceva”. Questa frase ha rappresentato uno dei riconoscimenti più alti della mia carriera di scrittrice.

Avrei voluto telefonarti per dirti, a te che lo avevi vinto con La grande sera, che ero arrivata tra i 12 finalisti dello Strega. So che ne saresti stato orgoglioso e felce. Non ho potuto dirlo né a te né a Renzo.

Caro Peppo, tra le tante cose che mi hai insegnate, una la pratico ogni giorno, e non è solo una lezione di scrittura, ma di vita: essere sinceri, sempre. Anche quando si sbaglia.

Ecco, questo di me credo di poterlo dire, insieme all’ammissione di aver sbagliato molto: ho cercato di essere sincera, sia nella scrittura che nella vita. Nella scrittura, sempre.

Grazie Peppo, per tutte quelle meravigliose ore trascorse ad ascoltare un uomo che i libri li amava davvero.

Barbara

*parte di questo racconto è entrato nel romanzo Non ti voglio vicino (Frassinelli, 2010. Tra i 12 finalisti del premio Strega.)

Qui potete ascoltare o scaricare le puntate sulla scittura di Dentro la sera (Teca Rai)

© Barbara Garlaschelli, 2018

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