Precari attimi illimitate albe

© ph. K. Colica

PRECARI ATTIMI ILLIMITATE ALBE

Rumori di fondo (hai visto che stelle? ti va un caffè, tanto ormai non dormiamo per stanotte).
Prendo la giacca dallo schienale della sedia. Mi scrollo i pantaloni attaccati alle gambe dall’umidità, ma ancora non mi alzo. (Ma parlaci di te, non ci parli mai di te). Non ricordo il tuo nome, tizio al mio tavolo. Chi sei. Ma in fondo a chi vuoi che freghi. A me; no. A noi?
Il locale all’aperto fa suonare ancora un altro gruppo etnico. Mi irrito. Penso che mi si sta prendendo per il culo anche con la musica. Forse non lo penso soltanto e lo dico; grido, oppure no. Mi gira troppo la testa per capirlo. Li guardo, i musicisti, e hanno vent’anni. Hanno vent’anni e suonano tarantelle. Io i miei vent’anni li ho perduti giusto giusto vent’anni fa. E vent’anni fa io suonavo rock. Rock, se mi permettete, pivelli. Ai miei tempi, mi viene da pensare, eravamo diversi. No, io “ai miei tempi” non lo dirò: non ci cascare, cazzo, stai zitto. Non ci cascare.
Non ho sonno, ho perso il sonno, ho perso la salute, ho perso anche Marianna.
Non importa: un giorno la ritroverò da qualche parte assieme alla mia vita. C’è tempo.
Sono instabile, ma attracco dignitosamente davanti alla cassiera. Apro il portafoglio e con un’occhiata distinguo più spicci che soldi di carta. Gli unici venti euro finiscono velocemente a ingrossare il mazzo dentro il registratore di cassa. Ne ottengo in resto quattro monete da venti centesimi che sommate alle altre possono bastare per i due caffè presi al prossimo locale lungo la Via Marina, tanto per far vedere a Luana che anch’io ci credo che questa notte è ancora nostra.
Tutto quest’alcol non mi serve se mi fa pensare, ricordare. Gradazione inutile. Immagini di lei, di un tempo che non ho, di uno che vorrei, di uno che mi hanno giocato a carte quelli che avevano l’asso di mano.
Metto a fuoco l’insegna del bar, barcollo. Mandolino dentro le orecchie, puzza di piscio sulla sabbia. Non ho vent’anni, non ho più vent’anni.
Barcollo ma tengo in piedi che è una bellezza. Luana mi aggrappa al volo. Non mi occorre nulla, urlo. Nulla, ripeto a bassa voce.
Ci sono crocifisso a occhi chiusi in questa dimensione. Mi guardo il palmo delle mani, ma non ho chiodi, non ho nemmeno calli come mio padre, ho solo macchie marroni di nicotina. Valgono? Dio dell’universo, rispondi: le mie macchie valgono come i tuoi chiodi merdosi? Non urlare, mi dice Marianna nella mia testa, non urlare, sei ubriaco. Riposati adesso, domani sarà diverso. Aspettiamo l’alba, allora, che si allarga come uno sputo nel cielo nero. Le faccio posto, ma stento a lasciarlo andare questo buio, mentre il caffè mi brucia la lingua e mi trasmette un senso inopportuno di calore lungo il corpo. Sudo. Riposati, riposati qui, mi dice Marianna. Ma da lontano.
Tamburelli e palmi ragazzini a batterci sopra. Ancora mandolini. Nocche di dita magre. Ritmo che mi nausea. Non dirmi che mi ami Marianna, non parlarmi di vita, taci. Parla di moda, di feste, reality. Nutrimi di banalità. Non mettermi paura col tuo amore a tempo indeterminato.
Penso che domani non avrò soldi, dopodomani sì, ancora dopo forse. E poi ancora no. L’ordine si può invertire ma il prodotto non cambia, come nella regoletta imparata alle elementari: è così il mio tempo, me lo tengo perché non so cambiarlo. Per cambiare le cose ci vogliono gli eroi, non i falliti come me.
Salve, sono Marco, in che cosa posso esserle utile.
Luana mi propone un ultimo salto in spiaggia a vedere l’alba e poi magari si farà l’amore. Non è difficile: mi hanno insegnato che questo è il sapore della libertà e io ci ho creduto. Sono nato in un tempo in cui lo spettro del posto fisso era da rifuggire, i figli non ne parliamo, il matrimonio una palla al piede. Tieniti stretta la tua libertà, mi si diceva. Viaggia, vedi gente, non firmare nulla: né mutui, né contratti. Scopa, guarda il culo alle diciottenni, ridi per una scorreggia dentro un film. Sii maschio: fai come i Chips, come Rambo. Fai così.
Io sono nato in quegli anni e mi sono ritrovato in questi. Sono a cavallo, gambe aperte, tra un periodo che non riconosco e un altro che detesto. Perché io lo voglio un posto fisso, una casa, un figlio, una donna che fa l’amore in un letto vero. Voglio una musica mai sentita prima, voglio che il mio passato resti immobile per i fatti suoi, non lo voglio più addosso a respirami il fiato in bocca con le sue cazzate che mi si parano davanti. Favole di seconda mano raccontate trent’anni fa da chi ora ha sessant’anni, una famiglia, uno stipendio, l’arrosto in forno e i Pink Floyd in HD sul maxischermo al plasma. Intanto io voglio crescere e non posso. Fatemi crescere, vi prego, fatemi invecchiare, fatemi avere i miei quarant’anni, per cortesia. Si potrebbe, signori? Ho i capelli grigi, le ginocchia che scricchiolano, e l’unico programma per il mio futuro è la festa in spiaggia di martedì prossimo.
Una bava di sole entra nel cielo e mi trapana le tempie assieme a quel maledetto mandolino fosforescente dentro le mie orecchie. Conati. Se vomito via questa merda starò meglio, ma non ho la mano sulla fronte di Marianna. La sua mancanza mi buca le viscere come un’ulcera. La chiamerei domani; ma non so dire il suo nome ad alta voce.
Do un’ultima occhiata al portafoglio, mi faccio due conti col listino prezzi appeso alla parete del bar e ordino un ultimo rum. Luana ride. È contenta se sono su di giri; ha le canne in borsa: lei non beve alcolici, si sballa di fumo. La guardo e ha il trucco che le cola agli angoli degli occhi. Mi fa pensare a com’era mia madre nella foto dei suoi vent’anni e a come potrebbe essere mia figlia adesso, se esistesse. Ho un senso di pena per lei, per me. Per questo tempo senza forma e contorno. Un tempo liquido che mi sbrana i giorni, la pelle, la carne. E mi lascia aggrappato alle mie viscere precarie. Domani non le ritroverò, dopodomani sì, ancora dopo forse. E poi ancora no. Così. L’ordine si può invertire ma, naturalmente, il prodotto non cambia.
E non cambierà, finché mi vedrà vivo.

© Katia Colica, 2018

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